Cosa ci sta insegnando il coronavirus

Le scuole chiuse, l’ingresso in Paesi stranieri vietato, la continua ricerca di informazioni mediche. Il Covid-19 ha rivoluzionato abitudini e scalfito certezze. Ma, proprio per questo, può spingerci a ripensare la nostra vita e il nostro futuro con maggiore consapevolezza. Lo facciamo qui insieme a 6 voci autorevoli

«La scienza non è infallibile, ma progredisce: perciò occorre averne fiducia»

Daniele Coen, già direttore del Pronto Soccorso dell’ospedale Niguarda di Milano e autore di Margini di errore (Mondadori)
«I ricercatori che mappano il virus, i medici che si prendono cura dei contagiati: la scienza è l’unica strada da percorrere per uscire da questo cammino impervio. Impariamo ad averne fiducia, dopo anni di pessimismo e fake news. I cittadini hanno il diritto di chiedere informazioni attendibili. Eppure, in questi giorni anche gli esperti non sono apparsi d’accordo tra loro. Il motivo? Siamo di fronte a una patologia nuova e si ragiona per similitudini con altre situazioni, si esprimono più pareri che certezze. Bisogna avere pazienza, solo il tempo aiuta a capire al 100% le epidemie. Come dico sempre, il senno di poi è l’unica scienza esatta. La medicina e la scienza non sono infallibili: studiano, analizzano, possono sbagliare, ma proprio dagli errori trovano la chiave di volta per conoscere una malattia».

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«Viviamo in un mondo più fragile di quanto pensassimo: distinguiamo tra timore e terrore»

Vito Mancuso, teologo e filosofo, Il suo ultimo libro è La forza di essere migliori (Garzanti)
«Guardiamoci dentro e chiediamoci cosa ci sta trasmettendo questo momento. Mi sta facendo vedere le mie paure o la mia temerarietà? Nelle emergenze esplodono il meglio e il peggio, come diceva il filosofo tedesco Karl Jaspers. Nei disastri si rivela l’uomo, che è una pasta strana fatta di antipodi: può diventare il peggiore di qualsiasi essere senziente, ma anche avvicinarsi alla divinità per forza e generosità. Domandiamoci da che parte stare, in che squadra giocare. Non solo: prendiamo consapevolezza delle nostre fragilità e della differenza tra terrore e timore. Il primo paralizza, il secondo è l’atteggiamento giusto di chi cammina, non torna indietro, ma procede con passo attento e misurato, ragionando. Le fragilità appartengono anche al mondo. Non è così forte e perfetto come pensavamo, ha un equilibrio precario. La tecnologia è un aiuto per preservare il Pianeta, ma non deve dominarlo: lasciamo spazio al silenzio, alla calma e all’autenticità».

«Gli anziani non sono cittadini di serie B: la loro memoria ci aiuta a non ripetere gli errori del passato»

Ferdinando Camon, scrittore, autore di La mia stirpe (Garzanti)
«“Be’, era anziano”. Questa frase è risuonata decine di volte, a proposito delle vittime del coronavirus, anche sui giornali e in tv. Come se la vita di chi ha superato i 70 anni contasse meno. Nella società di oggi, dove importa soprattutto l’efficienza, ci sono cittadini di serie A e di serie B: i primi sono quelli che lavorano, fatturano, contribuiscono al prodotto interno lordo; i secondi quelli che un impiego non lo hanno più e ogni mese “pretendono” la pensione. Le vittime di Covid-19 sono questi ultimi, mi ci metto anche io che ormai ho 84 anni, quindi la società può quasi tirare un sospiro di sollievo: in fondo non serviamo più. È un messaggio disumano e spietato. I nonni sono un pilastro del welfare familiare. Non solo: in questi giorni noi vecchi possiamo raccontare che il nostro Paese ha sempre saputo risollevarsi dalle calamità. Perché rappresentiamo l’esperienza e la cultura, consegniamo il passato al futuro e con la nostra memoria facciamo in modo che gli errori della storia non si ripetano. Siamo il gancio per il progresso».

«In teoria siamo pronti per lo smart working: perché funzioni davvero occorre una rivoluzione mentale»

Valentina Sangiorgi, direttore HR di Randstad Italia, multinazionale di selezione del personale
«In queste settimane, imprese e amministrazioni pubbliche sono ricorse in massa allo smart working. Un’opzione che in Italia coinvolge non più del 2-3% della forza lavoro, contro una media Ue dell’11%. Alcuni colossi dell’hi-tech applicano anche da noi forme “spinte” di lavoro agile: niente orari né postazioni fisse. Ma la sola diffusione del lavoro in remoto darebbe grandi vantaggi. Gli smart worker sono in media più produttivi e soddisfatti dei colleghi (il 76% contro il 55%) e desiderano restare più a lungo in azienda. L’Italia è pronta? In teoria sì. La legge c’è, però manca l’apertura mentale di tanti manager e imprenditori, abituati ad avere i dipendenti sotto gli occhi e a misurare il numero di ore alla scrivania più che i risultati. Certo, occorrono dei limiti. Va bene lavorare da casa alcuni giorni al mese, altrimenti si rischia da un lato l’alienazione e dall’altro l’eccesso di lavoro. E occhio ai luoghi comuni: lo smart working serve a tutti, uomini e donne, single e sposati, non facciamone lo stratagemma per incastrare le neomamme e obbligarle a lavorare e insieme accudire i figli piccoli».

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«La vita familiare si basa su una “to do list”: impariamo a stare insieme senza fare nulla»

Elisabetta Rossini, pedagogista e consulente familiare
«Alzi la mano chi in questi giorni non ha detto almeno una volta: “E ora cosa faccio fare ai miei figli?”. Con le scuole e a volte anche le aziende chiuse, le famiglie si sono ritrovate a dover gestire una vacanza forzata, non programmata. I ritmi della società contemporanea sono fatti di giornate in cui tutto è schedulato e perfino i weekend si trasformano in una carrellata di appuntamenti. Viviamo così almeno da 2 decenni e non riusciamo a comportarci diversamente: anche il rapporto tra genitori e figli ruota intorno a una “to do list”, quasi che gli adulti avessero paura di stare con i bambini senza fare nulla. Concediamo ai nostri piccoli, e a noi stessi, l’opportunità e la libertà della noia: in questi momenti di apparente vuoto ci si ferma e si dà spazio alla creatività. Così capiremo che una quotidianità diversa è possibile».

«Non esistono più un nord e un sud del mondo: l’intolleranza è soltanto controproducente»

Maurizio Ambrosini, sociologo esperto di migrazioni, ordinario all’Università statale di Milano
«Il coronavirus ha generato un paradosso. Prima ci siamo scagliati contro le comunità cinesi accusandole di aver portato il virus in Italia. Poi ci siamo trovati dall’altra parte della barricata: isolati nelle zone rosse, con una ventina di Stati che ci vietano l’ingresso e tanti connazionali residenti all’estero discriminati pur essendo sani. Stiamo assaggiando l’amara lezione del pregiudizio. Ci sentiamo vittime di un’ingiustizia e viviamo con fastidio lo stop ai nostri aerei imposto da Paesi mediorientali e africani, come se loro non avessero diritto di difendersi dall’epidemia. Sarebbe meglio imparare la lezione. Chiudere confini e alzare muri è inutile. Non regge l’idea di un mondo diviso tra Nord ricco, serrato con le sue certezze, e un Sud povero alla deriva. Le persone si spostano, così come i virus. L’intolleranza fa solo danni, è irrazionale e non serve a trovare soluzioni per gestire i movimenti planetari».

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