Le immagini di questo articolo fanno parte di "Sister", lavoro autobiografico della fotografa russa

Le immagini di questo articolo fanno parte di "Sister", lavoro autobiografico della fotografa russa Katerina Slesar, che da alcuni anni soffre di disturbo bipolare

Cosa significa vivere con il disturbo bipolare

Un attimo prima ti sembra di volare tra le stelle, quello dopo precipiti nell’abisso più profondo. È la devastante altalena tra iperattività e depressione con cui convive chi soffre di disturbo bipolare. Come racconta qui Paola, che adesso ha trovato il proprio equilibrio. Grazie alla terapia giusta

«Quando mi chiedono la ragione per cui abbia accettato di fare 14 elettroshock è perché non conoscono il pozzo nero in cui ho vissuto fin da quando ero bambina. Non sono serviti a niente, anzi credo che mi abbiano danneggiato la memoria, ma allora avevo 35 anni e avevo già provato di tutto: psichiatri, psicologi, ricoveri, persino un esorcista che mi disse che ero malata perché non pregavo la Madonna». Paola (il nome è di fantasia per rispettare la sua privacy) ha 48 anni e un disturbo bipolare con cui convive da sempre. Si è preparata con cura a questo appuntamento: la piega, un vestito primaverile, i tacchi, soprattutto l’urgenza di raccontare. «Lo faccio perché voglio che le persone che ne soffrono sappiano che con la terapia giusta si può arrivare a stare bene. Ma lo faccio anche per i “sani”, perché capiscano che avere una malattia mentale non significa essere matti: è come avere un rene che non funziona bene, si cura».

Conferma Cristina Colombo, responsabile del Centro disturbi dell’umore dell’ospedale San Raffaele di Milano: «Non si parla di guarigione, perché il disturbo bipolare non sparisce, ma con la terapia adeguata si controlla. L’esordio avviene perlopiù nella tarda adolescenza o nella prima giovinezza, spesso in seguito a un evento scatenante come un lutto, un parto, la fine di una storia d’amore. Ha un’origine genetica e colpisce l’1% della popolazione. La sua caratteristica è l’alternanza di episodi depressivi, in cui chi ne soffre vede tutto nero, e la fase che viene chiamata “mania”, cioè momenti di accelerazione del pensiero, iperattività, eccitazione. In questo periodo la persona spende soldi in modo sconsiderato, fa sesso senza controllo, sottovaluta i problemi e si sente onnipotente. Può sperimentare deliri in cui sostiene di essere il presidente del Consiglio e poi ritornare completamente in sé. Dal punto di vista del medico che la ha in cura, l’obiettivo è sempre il pieno ritorno alla funzionalità: se il mio paziente dirige una banca, deve tornare a dirigere una banca. Spesso chi soffre di disturbo bipolare ha una personalità brillante: farlo riappropriare di una vita normale è possibile. Anzi, doveroso».

Una vita normale. È quella che finalmente si sta godendo Paola

«Le passeggiate, il mio gatto, la voglia di vestirsi al mattino, le cene con gli amici». Ma prima di arrivare qui, la sua esistenza è stata un’altalena emotiva devastante. «Fin da bambina, quando guardavo il cielo tenendo per mano i miei genitori, mi sembrava così scuro, avevo la sensazione di essere risucchiata in un buco nero. Crescendo i pensieri sono diventati più consapevoli: vivere non aveva nessun senso, né per me né per le persone che amavo, mi si spaccava la testa dal dolore. Volevo solo dormire per non pensare. E poi, quando la sofferenza era troppo grande, mi buttavo fuori dal letto e iniziavo a correre verso la fermata della metropolitana per farla finita. Ma quando arrivava il treno, non riuscivo a gettarmici sotto, il pensiero dei miei mi toccava il cuore. Poi c’erano le fasi di euforia: da bambina cucivo da sola interi guardaroba di Barbie, al liceo studiavo come una forsennata per prendere tutti 10».

«A un certo punto è arrivato Simone, il grande amore della mia vita, avevo 20 anni. Con lui ho raggiunto vette di esaltazione impensabili: facevamo l’amore come pazzi per giorni, smontavo, rimontavo, dipingevo i mobili del suo appartamento, lo coinvolgevo in mille progetti, davo gli esami di Giuriprudenza a raffica. Poi d’un tratto non volevo più vederlo, mi chiudevo nella mia stanza, non rispondevo al telefono e dormivo, dormivo. Nonostante tutto, io e Simone siamo stati insieme 10 anni. Ho cercato di curarmi, ho incontrato psichiatri e psicologi: a tratti stavo meglio, ma mai bene. Ho deciso di lasciarlo: gli ho detto che si meritava una vita normale, io non potevo essere una moglie, una madre. Era Natale, sono crollata del tutto e mi hanno ricoverata in una clinica. Natale mi era sempre piaciuto e adesso mi ritrovavo in una stanza di ospedale ad aprire i regali con una sconosciuta che sembrava davvero matta. In qualche modo mi hanno rimessa in piedi, ho ricominciato a studiare, nel frattempo uscivo tutte le sere, vagavo da sola per i locali, bevevo parecchio, avevo un sacco di storie con persone di cui non me ne fregava nulla. E chiaramente non stavo bene».

Le immagini di questo articolo fanno parte di "Sister", lavoro autobiografico della fotografa russ

Le immagini di questo articolo fanno parte di “Sister”, lavoro autobiografico della fotografa russa Katerina Slesar, che da alcuni anni soffre di disturbo bipolare

Fare una diagnosi a volte è difficile

«Il disturbo bipolare molto spesso esordisce con una depressione, le fasi euforiche che l’hanno preceduta vengono scambiate dal paziente stesso con momenti di intenso benessere. Molti dicono: “Sono fatto così”, e in parte è anche vero. Perché è una specie di rappresentazione esagerata di periodi che tutti noi attraversiamo nel tempo. Ma se il problema non è curato o curato male, l’intensità peggiora. Se poi il paziente che non vede risultati immediati continua a cambiare psichiatra, ogni volta il medico deve ripartire: questo complica il percorso» dice Leo Nahon, ex direttore di Psichiatria 3 dell’ospedale Niguarda di Milano e allievo di Franco Basaglia.

Paola continua: «Sono tornata dal primo dottore che mi aveva visitato, non faccio nomi ma lo odio con tutto il cuore. Mi ha detto: “Sei in una fase di mania, ti ricoveriamo, hai bisogno di fare l’elettroshock”. Ed è arrivato il punto più basso della mia vita: 2 mesi nel padiglione psichiatrico di un ospedale pubblico toscano, una stanza con le sbarre alle finestre e il bagno con le porte tipo saloon, niente chiave, niente doccia: c’era il rischio che ci strozzassimo con il tubo, dicevano. Io e la mia compagna di camera ci lavavamo buttandoci addosso a vicenda l’acqua con le bottiglie. Quando era il mio turno veniva a chiamarmi un infermiere che sembrava un secondino, urlava il mio cognome: “Tocca a te”. Lo seguivo a piedi lungo un corridoio, in ciabatte e in camicia da notte, come una condannata, come un cane ubbidiente. Quando ti svegli dall’elettroshock, non ricordi nemmeno il tuo nome, sei completamente sconvolta. Ero così tesa che contraevo la vagina fino a farmi venire dolori strazianti. Ai miei genitori ho detto: “Basta, portatemi via di qui”».

«Le indicazioni ministeriali che regolano l’utilizzo dell’elettroshock lo suggeriscono solo in caso di depressioni gravi resistenti ai farmaci, un evento piuttosto raro. E in quel caso funziona molto bene» precisa la dottoressa Cristina Colombo. «Il San Raffaele Turro è uno dei centri in Italia che lo pratica, però qui le cose funzionano diversamente: il paziente è trattato come durante una normale operazione, entra e esce in barella ed è sempre accompagnato dal suo psichiatra e dall’anestesista. Parliamo comunque di 10 casi all’anno».

La svolta nella vita di Paola è un medico che finalmente trova la cura e l’approccio giusti

«Mi ha ispirato da subito un senso di empatia. Mi ha detto: “Abbiamo tutto il tempo del mondo, mi racconti quello che vuole”. Poi mi ha fatto domande molto specifiche e puntuali. Mi ha salvata, grazie a lui sono tornata a vivere». «Questo medico ha avuto l’atteggiamento che tutti i medici dovrebbero avere: l’ascolto profondo non solo dei sintomi ma anche delle dinamiche. Lo psichiatra preparato, oltre alle conoscenze farmacologiche, ha una solida formazione psicologica che gli consente di individuare il nucleo patologico principale e trovare la terapia opportuna, anche perché la letteratura dice che i migliori risultati si ottengono combinando il trattamento farmacologico con quello psicologico» aggiunge Leo Nahon.

«È importante, anche se non facile, cogliere precocemente i segnali del disturbo, che si possono manifestare in lunghe fasi di svogliatezza o in un rendimento scolastico molto discontinuo. In quel caso la cosa giusta è consultare subito uno specialista e poi, anche nelle fasi di benessere, condurre uno stile di vita sano: seguire orari regolari, limitare il consumo di alcol, fare molta attività fisica, per non ricadere negli episodi acuti» continua l’esperto. Paola lo sa bene ormai e le sue lunghe passeggiate mattutine sono un inno quotidiano alla vita: «Ho dedicato troppo tempo alla mia sindrome bipolare, adesso voglio dedicarlo ad altro. Ho fatto pace con il mio passato e soprattutto con il mio giudice interiore, ho smesso di non sentirmi all’altezza. Anzi: se sono stata in grado di sopportare tutto questo dolore, è perché dentro di me ho davvero tante risorse».

Chi ti può aiutare

Abbiamo incontrato Paola tramite la onlus Progetto Itaca. Volontari per la salute mentale, di cui oggi lei è una volontaria. Progetto Itaca promuove programmi di informazione, supporto e riabilitazione rivolti a persone affette da disturbi della salute mentale e alle loro famiglie. È nata a Milano nel 1999 e negli anni si è sviluppata fino ad avere 11 sedi in tutta Italia. Offre servizi, completamente gratuiti, che mirano a informare e sensibilizzare per prevenire il disturbo e orientare alla diagnosi e alla terapia.

Il libro da leggere

Lucy Newlyn, poetessa e docente universitaria a Oxford, ha scritto “Diario di un’esploratrice bipolare” (Odoya). È una storia autobiografica in cui racconta il suo rapporto con la sindrome. Gli episodi di depressione, di mania, le sue battaglie in famiglia e al lavoro, ma anche l’identificazione della sua condizione come fonte di creatività. Un memoire che ripercorre 15 anni della vita dell’autrice, demistificando i luoghi comuni sulla sindrome bipolare e sullo stigma sociale che l’accompagna.

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