Gli scatti di questo articolo sono firmati da Paolo Della Corte, nato e residente a Venezia. L’aut

Gli scatti di questo articolo sono firmati da Paolo Della Corte, nato e residente a Venezia. L’autore ha voluto documentare “l’accerchiamento” degli abitanti da parte dei turisti che, secondo le stime più recenti, nella città lagunare sarebbero presenti con una proporzione di 73,8 per ogni veneziano

Come il turismo sta cambiando le nostre città

A Venezia cala il numero dei residenti. A Roma le catene internazionali sostituiscono i negozi di quartiere. In tutto il Paese si moltiplicano gli affitti a breve termine. Sono alcuni effetti collaterali dell’aumento dei visitatori. Che per alcuni snatura i centri storici, per altri rivitalizza le periferie. Abbiamo indagato

A partire da questa estate entrare a Venezia costa 3 euro, e dal 2020 se ne pagheranno fino a 10. Lo ha stabilito la giunta comunale, precisando che gli introiti verranno utilizzati per la manutenzione della città storica, per la gestione della sicurezza e per ridurre i costi dei servizi per i veneziani, traducendosi in un beneficio per la comunità locale.

Un provvedimento che cerca di tamponare anche la fuga di residenti: la città lagunare ne conta meno di 54.000, a fronte degli oltre 170.000 del Dopoguerra. Lo spopolamento dei locali è andato di pari passo (o, secondo alcuni, di conseguenza) con la cosiddetta “turistificazione” e l’arrivo di residenti “non residenti”: i visitatori e gli utenti di piattaforme come Airbnb, che solo a Venezia possono contare su un’offerta di 8.000 abitazioni.

Non va diversamente altrove: tra il 2016 e il 2018 il numero di alloggi disponibili in Italia è salito del 78%: 30.000 a Roma, più di 18.000 a Milano, quasi 8.000 a Napoli e circa 11.000 Firenze. Per questo motivo, sempre più comitati civici invocano una regolamentazione più restrittiva. Secondo la rete SET (Sud Europa di fronte alla Turistificazione), estesa da Lisbona a Napoli, le amministrazioni locali non sarebbero in grado di far diminuire i residenti dei centri storici né di impedire che gli alloggi restino a lungo sfitti.

Attirati da guadagni spesso esentasse, i possessori di abitazioni centrali preferiscono affittarle a chi è di passaggio anziché a locatari a lungo termine. Secondo un rapporto dell’università di Siena dal titolo Airification of cities, la maggioranza non usa l’affitto di un appartamento per arrotondare: oltre il 60% sono multiproprietari che prediligono il turista per evitare le morosità degli inquilini tradizionali.

«Così i centri storici si spopolano e diventano spazi destinati al consumo, con paninerie e rivendite di souvenir» spiega Alessandra Esposito, ricercatrice di Studi urbani all’università La Sapienza di Roma e attivista SET. I dati lo confermano: per Confcommercio, negli ultimi 10 anni i negozi al dettaglio dei centri storici sono scesi dell’11%, mentre hotel e ristoranti sono saliti del 15. E capita perfino che di “gradimento” si soffochi. Come avviene a Matera, che dal 2010 a oggi, già prima di diventare Capitale europea della cultura, ha visto i turisti aumentare del 176%, con 700 tra alberghi, bed and breakfast e alloggi vari: 7 volte più di 8 anni fa.


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Foto di Paolo Della Corte_Buenavista


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«Un quartiere vero è quello che rispetta la tradizione sociale italiana, in cui il notaio vive accanto al calzolaio»

Trovare un equilibrio tra ragioni economiche e tutela delle città è difficile. Se le lamentele degli abitanti di Venezia o di Firenze hanno avuto eco fino a Bruxelles – dove si prepara una normativa più severa verso gli affitti a breve termine – è anche vero che il turismo associato a iniziative illuminate può rivitalizzare zone meno “cool”, aumentandone l’attrattività e generando posti di lavoro. È successo a Milano, con l’area circostante la Fondazione Prada, oggi piena di visitatori, dove si stanno inaugurando nuovi spazi commerciali e culturali.

O come la zona vicina a piazza Gae Aulenti, che ha visto crescere il suo valore immobiliare del 20% in un anno. Il rovescio della medaglia è che stare in una zona alla moda costa anche a chi ci è nato: così pian piano ai vecchi abitanti di un quartiere se ne sostituiscono di più solvibili. È ciò che si definisce “gentrification” (da gentry, che significa la piccola nobiltà), ossia una «produzione dello spazio urbano per utenti sempre più ricchi» spiega Giovanni Semi, docente di Sociologia all’università di Torino e autore di “Gentrification: tutte le città come Disneyland?” (Il Mulino).

Così si rischia da un lato una nuova “segregazione” sociale, in cui i vecchi residenti con redditi inferiori finiscono confinati in periferia, dall’altro che l’autenticità di una zona “in” venga progressivamente minata. «Un quartiere vero non è solo quello in cui trovo il birrificio artigianale o il laboratorio di pasta fatta in casa, ma quello che rispetta la tradizione sociale italiana, la cui ricchezza stava nella mescolanza di classi e nel fatto di trovare, l’una accanto all’altro, la bottega del calzolaio e lo studio del notaio.

Ora si rischia di perdere questa pluralità culturale, facendo dei nostri quartieri dei parchi a tema, fino a renderli ghetti di lusso» sostiene Giovanni Semi. Lo conferma Irene Ranaldi, 45 anni, sociologa urbana e da sempre residente nella zona di Testaccio, a Roma. Nell’ultimo anno ha visto aumentare il valore della sua casa dell’11%; in compenso, al posto del droghiere o del macellaio, ora fuori dalla porta trova le insegne di Burger King’s e Zara. «Insieme ai negozi storici, sostituiti da catene sempre uguali dovunque, sono venute meno le relazioni tra gli abitanti del quartiere. Molti se ne sono andati altrove» lamenta la studiosa.

«Ci vorrebbe una legislazione nazionale per limitare le notti disponibili ai turisti sulle piattaforme web»

Che fare, allora? Ma, soprattutto, occorre fare qualcosa? «Dipende da come pensiamo debbano essere le nostre città e chi le abita» risponde Semi. «Se riteniamo che con la globalizzazione il residente di un posto non sia per forza chi ci è nato, possiamo considerare positivi gli apporti da fuori». In fondo, se tanti italiani vivono a Berlino o Londra, non possiamo criticare gli stranieri che comprano case qui.

«Tuttavia, resta discutibile che si permetta solo a chi ha un certo reddito di abitare in un certo posto. Nei quartieri emergenti si può pensare di lasciare una parte di abitazioni a prezzi calmierati, per non avere solo proprietari ma anche affittuari che studiano o lavorano» suggerisce Semi. Contro l’invasione dei turisti, invece, sarebbe bene «limitare le notti disponibili per le piattaforme e promuovere una legislazione nazionale in modo che ogni città non faccia a modo suo» aggiunge Alessandra Esposito dell’università La Sapienza. «Infatti, per quanto gli amministratori locali ragionino sapendo che il turismo è il primo mercato mondiale, sarebbe utile che fossero lungimiranti e non snaturassero le città, per poterci vivere anche in futuro».

I numeri

44,4 milioni i visitatori nelle città d’arte in Italia nel 2018, secondo Assoturismo. 400.000 gli immobili su Airbnb in Italia. 64,5% le case disponibili su Airbnb per oltre 6 mesi l’anno. Il 62% degli annunci sono pubblicati da gestori di più abitazioni.

Come si affitta su Airbnb

Chi dà in locazione una casa sulla piattaforma deve rispettare 3 regole:

1. I dati degli ospiti vanno dichiarati alla Questura (si può fare sul sito). Se l’ospite si ferma meno di 30 giorni, va stipulato un contratto senza obbligo di registrazione.

2. Per pagare le imposte sui guadagni, il proprietario può aggiungerli agli altri redditi, sottoposti ad aliquota Irpef dal 23 al 43%, oppure optare per la cedolare secca con aliquota fissa al 21%.

3. Contro l’evasione fiscale da poco è stato introdotto un codice unico identificativo per ogni struttura ricettiva, inserito in una banca dati cui accede anche l’Agenzia delle Entrate. Per chi non lo usa, la multa va da 500 a 5.000 euro.

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