L’istinto paterno è innato o si acquisisce?

L'istinto paterno è innato o si acquisisce col tempo? Se lo chiede Federico Baccomo, un famoso scrittore diventato papà poco più di due anni fa. Che ci confida la verità che ha imparato: «Un padre viene al mondo come un figlio: spaesato, tremante. Cresce crescendo il suo bambino»

Sono diventato papà il 1° gennaio del 2020. Ho pensato: ecco qua, il segno che sarà un anno memorabile, ma che dico un anno, sarà un decennio memorabile! Abbiamo visto come è andata. Eppure, se mi volto a dare uno sguardo a questi ultimi, e per molti versi tragici, due anni, non trovo un solo istante che non sia stato esattamente come l’avevo prefigurato: memorabile, nel senso più felice del termine. Lo devo al fatto di essere stato fortunato (non ho patito lutti, problemi di lavoro, difficoltà sentimentali, disturbi psicologici o un’altra delle tante complicazioni che hanno oscurato la vita di molti), ma lo devo anche, e soprattutto, al filtro meraviglioso che mia figlia, venendo alla luce, ha imposto tra me e il mondo.

Da quando sono papà tutto ruota intorno a mia figlia

Metto le mani avanti: non sono uno di quei genitori molesti che usano i figli come trofei, sfoggiando caterve di fotografie, esaltando ogni più minuscolo progresso, padri e madri che somigliano ad apostoli impegnati a celebrare i loro piccoli Messia. Anzi, posso dire l’opposto: non parlo mai della mia bimba, ho poche fotografie sul telefono e non mi spendo a cantare le gioie della genitorialità. Però ammetto che, da quel 1° gennaio, non esiste più nulla che si estenda oltre l’orizzonte di mia figlia. Non c’è un solo giorno, un solo episodio, un solo sorriso, che non si porti addosso una traccia di lei. Dall’attimo in cui mi sveglio a quello in cui mi addormento (momenti naturalmente che decide lei), la mia giornata le gira intorno in un’orbita da cui non posso sfuggire.

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Da quando sono papà penso solo a mia figlia

Non è solo quando si tratta di vestirla, prepararle da mangiare, giocarci, portarla al parco o metterla a dormire, mia figlia spunta in ogni singolo tassello che compone il mio mondo: se guardo la mia compagna, vedo anche sua madre; se penso al mio lavoro, non posso che trovarci anche un mezzo per garantirle un futuro; nelle uscite con gli amici, oltre alla gioia, c’è tutta la necessità di organizzarmi in accordo con i suoi bisogni. E potrei andare avanti per ogni altra piccola o grande occasione della mia vita, vacanze, letture, sogni, speranze, terrori: tutto passa attraverso lei.

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L’istinto paterno non c’è

Prima di diventare papà, mi aspettavo che sarebbe stato così? Be’, diciamo che avevo sentito mille volte quella litania del figlio che ti cambia la vita, per cui mi ero preparato all’idea. Ma tra immaginarsi padre e farne esperienza c’è la distanza che passa tra immaginarsi di fare l’amore e farlo davvero: una deflagrazione di sensi che ti lascia addosso l’imbarazzo di ripensare a quanto eri ingenuo in quel tuo fantasticare. No, la verità – la mia verità – è che un padre viene al mondo esattamente come un figlio: spaesato, tremulo, completamente esposto. La paternità è questa nudità: un uomo che accoglie tra le braccia una creatura nuova e sceglie di fidarsi di lei. Non c’è – perlomeno, io non l’ho sentito – un legame istintivo, qualcosa cui aggrapparsi per imparare e giustificare il nuovo mestiere. Del resto, a differenza di sua madre, io non l’ho accolta e tenuta dentro di me, non l’ho nutrita e protetta per lunghi mesi, offrendole il guscio del mio corpo e subendone gli umori e gli slanci, non l’ho sentita, letteralmente sentita, parte di me, come e più di un organo.

La paternità si inventa, non è innata

Insomma, quando l’ho presa in braccio per la prima volta e ho pensato “mia figlia”, ero in errore, perché non si può giustificare quell’enorme aggettivo possessivo – mia – solo in virtù della trasmissione di una certa quantità di patrimonio genetico. Quella bimba che cullavo era solo una piccola e furibonda sconosciuta che la sorte e la madre mi affidavano con l’implicita speranza che io mi affidassi a mia volta a lei. E così ho fatto. Con fatica, con tenerezza, senza bussole. E crescendo lei, sono cresciuto anch’io, finendo per arrendermi all’evidenza che la paternità è un concetto indefinito, vertiginosamente vuoto, che spetta a ciascun uomo riempire. Perché, se ogni donna, in virtù della sua possibilità (concreta o meno) di donare la vita, porta inscritta dentro di sé una grammatica d’amore istintiva, questa è del tutto sconosciuta ai padri (reali o potenziali), ai quali resta solo la possibilità magnifica di inventarsi un modo di apprenderla. Con pazienza, dedizione, umiltà e tanta, tanta pratica, come avviene per ogni linguaggio nuovo.

Se non hai figli, non puoi capire. Vero

Sono parecchie le frasi che i non-genitori detestano – «Guarda questo video in cui la fa nel vasino», «E se a cena portassimo anche il bimbo?» – ma ce n’è una che sta sul podio: «Se non hai figli non puoi capire». So che mi attirerò l’antipatia di molti, ma io, che per primo mi sono ribellato a quella frase boriosa ogni volta che un amico l’ha sentenziata per cercare di spegnere commenti o proteste sulla sua vita in relazione ai figli, oggi non posso che arrendermi di fronte alla sua intima verità: se non hai figli, non puoi capire. Ma – attenzione – ho scoperto anche un’altra verità, una che non viene mai detta, e cioè che la paternità non sostituisce a quello stato di ignoranza una qualche forma di sapienza. No, la paternità prende quell’ignoranza e la rimpiazza con un’altra forma di ignoranza, ancora più acuta e persino più dolorosa, tanto che diventa vero – molto più vero – il contrario: «Se hai figli, non puoi capire». Ecco, il sentimento paterno mi sembra chiuso tutto in questa incapacità di capire, in questo tentativo inesausto e inesauribile di abbracciare una forma d’amore troppo grande ed eccezionale, troppo sfuggente e aliena, per un cuore – quello di ogni papà – tanto avido eppure così impotente.

L’ultimo libro di Federico Baccomo, autore di questo articolo, è Che cosa c’è da ridere (Mondadori, 2021).

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ha provato alla nascita di suo figlio.

Congedo di paternità

Nel 2022 compie 10 anni il congedo di paternità. Quando è stato istituito era di un giorno, oggi è di 10: retribuiti al 100%, vanno goduti entro i primi 5 mesi dalla nascita del figlio. Per adesso possono usufruirne i dipendenti del settore privato, ma pochi lo fanno. Nel 2021, secondo i dati provvisori dell’Inps, li ha richiesti poco più della metà dei neopadri, circa 155.000.

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