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Olivia Colman: «Non sono una signora»

Come la protagonista di “Cattiverie a domicilio”, ora al cinema, l’attrice inglese è allergica al perbenismo. Dice le parolacce. Si ribella alle discriminazioni imposte alle donne. A partire dagli stipendi. «Se mi chiamassi Oliver guadagnerei molto di più!»

Le sue risate dettano il tempo della nostra intervista. Non immaginavo che Olivia Colman, per quanto inglese, avesse un simile sense of humour, forse perché mi sono rimasti impressi i ruoli drammatici per i quali è stata candidata 3 volte all’Oscar: la regina Anna in La Favorita, che glielo ha fatto vincere nel 2019; la figlia premurosa ma combattuta di un Anthony Hopkins affetto da demenza in The Father del 2020; la professoressa universitaria che aveva abbandonato le sue bambine da piccole in La figlia oscura del 2021.

Ma, pensandoci bene, pur avendo iniziato a lavorare “solo “ a 26 anni, l’attrice britannica, che oggi ne ha 50, si è costruita una carriera eclettica tra cinema e tv, alternando polizieschi come Broadchurch a commedie come Fleabag e musical come Wonka, senza dimenticare la “sua” Elisabetta II in The Crown. È notizia di pochi giorni fa che sarà protagonista, accanto a Benedict Cumberbatch, di The Roses, remake del cult La guerra dei Roses con Michael Douglas e Kathleen Turner. Intanto, è nelle sale con Cattiverie a domicilio, commedia british ispirata a un’incredibile storia vera di un secolo fa.

Nel 1922 la tranquilla vita degli abitanti di Littlehampton viene sconvolta da una serie di lettere anonime piene di oscenità. Edith (Olivia Colman), originaria della cittadina e profondamente conservatrice, incolpa Rose (Jessie Buckley), una giovane immigrata irlandese incline a sfidare le convenzioni. Ma quando il caso finisce in tribunale, le due vicine di casa iniziano a indagare, sospettando che le cose potrebbero non essere come sembrano.

Oltre che protagonista, è anche produttrice del film insieme a suo marito, lo sceneggiatore Ed Sinclair. Perché ha scelto questo progetto?

«Leggendo le lettere dello scandalo sono morta dal ridere. Mi è molto piaciuta anche l’idea di un film d’epoca ma scurrile. E poi le donne degli anni ’20 sono rappresentate in modo originale e, credo, anche più vicino alla realtà. Non tutte passavano le giornate facendo il pane in casa e andando in chiesa, tante erano molto più indipendenti di quello che pensiamo».

Olivia Colman in una scena di Cattiverie a domicilio, ora al cinema

Cattiverie a domicilio è una satira sul perbenismo del tempo, ma anche una riflessione attualissima sui messaggi d’odio anonimi: allora viaggiavano per posta, adesso si propagano sui social. Non abbiamo imparato nulla?

«Pare proprio di no! Credo che gli esseri umani difficilmente imparino dai propri errori. Anzi, direi che nel caso di queste lettere con la penna avvelenata”, come le chiamiamo noi britannici, le cose siano perfino peggiorate: sui social gli insulti arrivano tempo reale e vengono pure letti da centinaia, se non migliaia, di altre persone. Vorrei che il pubblico si possa divertire, ma anche riflettere sul dolore che infiggiamo al prossimo con la nostra cattiveria».

Nel film dite molte parolacce…

«E mi sono divertita tantissimo! Lo confesso: anche nella mia vita quotidiana ne dico parecchie. Non ho mai capito perché la gente si scandalizzi: per me sono liberatorie. Però sono solo una parte della storia…».

E l’altra qual è?

«Il film si svolge durante il periodo delle suffragette, racconta l’emancipazione femminile. La mia Edith si libera dalle catene del perbenismo a cui eravamo destinate noi donne, l’idea di doverci sempre comportare da “signore”. Che assurdità! È una storia che ci ricorda quanto siamo cresciute nella società, anche se per raggiungere la parità dobbiamo ancora farne di strada».

In una recente intervista alla Cnn ha detto che se si chiamasse Oliver guadagnerebbe molto di più…

«E lo ribadisco: gli attori hanno cachet maggiori perché i produttori sostengono che siano loro ad attirare il pubblico al cinema. Cosa che non è più vera da parecchio tempo, eppure viene usata ancora come scusa per pagare noi attrici meno delle nostre controparti maschili».

Ha mai rimpianto di non aver interpretato qualche ruolo?

«Sì, spesso mi dico: “Oh shit, avrei tanto voluto farlo” (ride per l’imprecazione, ndr). Non è facile incastrare tutto, a volte si tratta di capire quanto voglio lavorare a un nuovo progetto per conciliarlo con un altro che ho già accettato. Credo di essere stata fortunata, ho ricevuto molti bei copioni: li scelgo seguendo l’istinto, la sceneggiatura e i dialoghi contano più di tutto il resto».

Sta lavorando tantissimo: la vedremo in The Roses e in Paddington in Perù.

«Faccio fatica a dire di no e mio marito mi prende in giro, dice che mi preoccupo troppo che, se rifuto, non mi richiamino più. Però ricordo bene quando per mesi non mi arrivava nemmeno una proposta, e lavoravo come segretaria per mantenermi. L’ho fatto per molto tempo, ma la verità è che lo odiavo».

Sognava di fare l’attrice?

«No, avevo sogni molto più ambiziosi, tipo diventare una chirurga. Purtroppo non sono mai stata brava a scuola, e i miei genitori non avevano grandi ambizioni per me. Ma la prima volta che ho avuto occasione di recitare, a 16 anni, ho pensato che forse anch’io avevo trovato il mio posto nel mondo. Non conoscevo nessuno nell’ambiente, pensavo che fosse un mestiere solo per chi veniva da famiglie di attori. Però a quell’età siamo tutti un po’ incoscienti, ed è bello dimostrare a te stessa che in fondo è giusto sognare l’impossibile».

Un ruolo che ha sempre voluto interpretare?

«Ho sempre voluto recitare in una storia di supereroi della Marvel: ho visto tutti i film con i miei figli. Finalmente, dopo anni che pregavo il mio agente, ho ottenuto un ruolo nella serie Secret Invasion. Dopo l’Oscar, ho realizzato un altro sogno!»

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