Lino Guanciale

Lino Guanciale, Il Commissario Ricciardi nella seconda stagione

Inizia il 6 marzo su Rai1 la seconda stagione de Il Commissario Ricciardi. Lino Guanciale, da poco diventato papà, ammette che anche gli uomini più emancipati faticano a liberarsi dalla cultura patriarcale: «Dobbiamo ripensare la virilità»

Lino Guanciale tra serie tv, libri e teatro

CI INSEGUIAMO PER UN PAIO DI GIORNI, finalmente ce la facciamo. «Ho finito le mie ultime riprese, torno a casa per un po’». Lino Guanciale lo dice con un sollievo che si avverte, lui che un po’ viene travolto dai progetti (lo abbiamo appena visto in Sopravvissuti e La porta rossa 3, il 6 marzo parte su Rai 1 la seconda stagione di Il Commissario Ricciardi), un po’ gli impegni se li cerca (ha scritto un romanzo, Inchiostro, e si appresta a riprendere le tournée di 3 spettacoli teatrali).

Il ritorno de Il Commissario Ricciardi

Ah: è anche diventato papà poco più di un anno fa. Leggo che rischia di finire come il protagonista di Misery non deve morire: ogni volta che fa intuire che una sua serie potrebbe finire, le fan sono pronte ad armarsi… (ride, ndr)

«Il post-Covid non ha aiutato, le cose si sono affastellate l’una sull’altra… Cerco di prendermi il mio spazio: l’anno scorso ho lavorato 3 mesi al Piccolo Teatro di Milano proprio per stare di più con mio figlio».

Il teatro è sempre più una fuga, per molti attori di cinema e tv.

«Io l’ho sempre fatto, anche col rischio di infagottare la mia agenda. Quando è arrivato il momento della “tanta tv”, come lo chiamo io, ho cercato di darmi una regola: non rinunciare al teatro. Innanzitutto, per non perdere la compagnia che ho contribuito a formare; e poi perché ogni volta è come fare un tagliando. Quello che ho guadagnato in questi 10 anni sono state le opportunità di crescita, ora voglio costruire la cosa più difficile per chi fa questo mestiere: la quotidianità in famiglia con mia moglie e mio figlio. Il primo ad averne bisogno sono io».

Un figlio cambia lo sguardo di un attore come lei, abituato a stare per mesi sui set?

«Ultimamente mi è successo prima a Trieste con La porta rossa, poi con la Taranto “napoletana” di Ricciardi: se sto a lungo in una città, e inizio a essere salutato dalle persone che ci vivono, finisco per sentirmi a casa. Rinunciare a tutto questo è difficile. Ma quando arriva un figlio la priorità non sei più tu, e vale anche più che con un amore. In una relazione amorosa i centri sono due, con un figlio il centro diventa un altro».

Ricciardi è forse il suo personaggio più teatrale.

«È vero, ma già nei romanzi di Maurizio De Giovanni (da cui è tratta la serie, ndr) il teatro era presente. È un luogo topico per la cultura napoletana, ancora oggi».

L’altro elemento che spesso torna nei suoi lavori, è il confronto con la morte. Ricciardi vede gli spiriti delle persone uccise, La porta rossa si interroga sull’ultraterreno, persino il suo piccolo ruolo nel film Il primo giorno della mia vita, ora in sala, ha a che fare con la fine della vita.

«Ormai sono un attore “di genere” (ride, ndr). A me interessa lavorare su opere che varchino dei limiti: ho capito che prendersi rischi anche coraggiosi alla fine paga. La morte in sé, l’aldilà non mi raccontano nulla di “atmosferico”: non sono un credente, sono un ferreo razionalista. Ammetto l’esistenza di quel mistero che la ragione non può toccare, ma non mi lascio andare a slanci fideistici. Non so credere a qualcosa oltre la vita, ma questi personaggi mi hanno arricchito: hanno a che fare con quello che ci accomuna più di tutto, che non è tanto la paura di morire, ma di vivere con le nostre ansie».

Forse il suo atto di fede è la politica? Continua a battersi in prima persona: l’ultimo impegno è il ruolo di portavoce di Elly Schlein in Abruzzo, la regione dove è nato. «

Forse sì, perché la politica è la cosa che ci riguarda tutti. Il mio modo di farla concretamente è stato diventare testimonial dell’Unhcr (l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, per cui ha appena realizzato anche un video sulla guerra in Ucraina, ndr). Rappresentare la causa dei rifugiati nel nostro Paese è una presa di posizione importante su un nodo centrale: realizzare un modello di società inclusiva, in cui sia gli ultimi che già si trovano in Italia sia quelli che ambiscono ad arrivarci per restare o andare altrove, è la scia attorno a cui si costruisce il mondo che speriamo ci sia domani. È il modo che ho trovato per fare la mia parte, insieme all’impegno da formatore culturale nelle scuole e nelle università. Fare politica vuol dire sporcarsi le mani dentro la società, non dare indicazioni di voto».

In tanti dicono: «Non voglio far nascere un figlio in questo mondo».

«Io penso che del mondo non bisogna avere paura. Se la realtà che viviamo ci spaventa, rinunciamo in partenza a cambiarla. Essere padre mi porta a cercare di fare con ancora più determinazione quello che già faccio. Non ho paura di andare in luoghi come l’Etiopia o il Libano perché ora ho una responsabilità come genitore: certo, bisogna stare molto attenti in missione, prepararsi con cura ai rischi; ma non ho mai ceduto alla tentazione di tirare i remi in barca. Quando guardo mio figlio penso a quanto siamo fortunati, perché ho visto bambini meravigliosi con davanti a sé un futuro fatto di polvere. Mio figlio è la testimonianza diretta che tutto questo non posso accettarlo».

Parlando di politica e cambiamenti: come vede cambiate, se lo sono, le donne di oggi?

«Il movimento internazionale MeToo e Amleta qui da noi hanno fatto moltissimo nella costruzione di una nuova coscienza non solo presso le lavoratrici, ma anche tra i lavoratori nel mondo dello spettacolo. Credo però che la cosa valga in tutti i campi: i passi avanti fatti in termini di rivendicazioni, parità di trattamento salariale, riconoscimento identitario sono stati enormi. Semmai non stiamo cambiando noi maschi: anche uomini che sono in ottima fede fanno fatica a uscire da una cultura che tende ancora a marginalizzare il ruolo della donna. Serve un ripensamento radicale dell’idea di virilità, siamo noi uomini a dover ripensare noi stessi».

Qual è la cosa che non avrebbe mai previsto, quando era un giovane attore dell’Accademia?

«Non avrei previsto nulla di tutto questo. Ho vissuto con ansia i riconoscimenti a inizio carriera, quando facevo solo teatro per una scelta un po’ snobistica. Quando sono arrivati i primi film e le prime serie pensavo: “Ci provo, tutto fa brodo”. Ma che la situazione esplodesse così non me lo sarei mai aspettato. La cosa a cui ho sempre tenuto è il rapporto con il pubblico, qualunque esso sia

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