«Sono il tipo che sceglie sempre i vestiti la sera prima, onde evitare dubbi dell’ultimo minuto» rivela, con il suo inconfondibile sorriso, Robert Downey Jr. quando gli faccio i complimenti per il look: completo di velluto, T-shirt e sneakers.

Incontro con Robert Downey Jr

Ci incontriamo a Los Angeles in occasione del lancio della miniserie Il simpatizzante, appena partita su Sky Atlantic e Now. Tratta dall’omonimo romanzo di Viet Thanh Nguyen, vincitore del Pulitzer per la narrativa nel 2016, e firmata dal regista sudcoreano Park Chan-wook, premiato a Cannes per i cult Old boy e Decision to leave, è un thriller a metà tra spionaggio e satira ambientato alla fine della guerra del Vietnam. La vicenda ruota attorno al Capitano, una spia comunista infiltrata nell’esercito del Vietnam del Sud che poi si rifugia negli Stati Uniti, dove continua la sua attività sotto copertura per conto dei Vietcong. Ma, inutile dirlo, il protagonista assoluto è Downey Jr., che interpreta ben 4 personaggi: un agente della Cia; un regista impegnato che sta girando un film sulla guerra del Vietnam; un professore universitario di culture orientali; un membro del Congresso.

4 personaggi per Robert Downey Jr

Uno, nessuno, centomila, come è sempre stato. Dalla prima candidatura all’Oscar, a 27 anni, come migliore attore nel ruolo di Charlie Chaplin in Charlot, per cui imparò perfino a suonare il violino, fino all’Oscar come migliore non protagonista conquistato 3 mesi fa, a 58, per Oppenheimer dove, smagrito e stempiato, interpretava il colonnello Lewis Strauss, nemico dello scienziato che ha inventato la bomba atomica. Passando, nel frattempo, attraverso: 5 anni bui, dal 1996 al 2001, tra droga, carcere e rehab, che sembravano aver decretato la fine della sua carriera; il ritorno al cinema d’autore con Good Night, and Good Luck di George Clooney e Zodiac di David Fincher; il successo globale come supereroe nelle saghe di Iron Man e degli Avengers.

Un trasformista

Ripercorrendo la varietà dei suoi personaggi, e pensando ai 4 che interpreta in Il simpatizzante, la definirei un trasformista.

«Sono un uomo curioso, appassionato della vita. O meglio, grato di essere vivo, dopo tutta quella cocaina… Questa serie è stata una sfida, ho battuto anche Peter Sellers, che nel Dottor Stranamore aveva 3 ruoli diversi! Ma, al di là di me, è una storia interessante e complessa che offre una visione diversa della guerra del Vietnam. Per questo ho voluto anche produrla con Team Downey, la società che ho fondato con mia moglie Susan nel 2010».

The Sympathizer

Essendo un team, chi prende le decisioni?

«Entrambi. Quando abbiamo letto il romanzo Il simpatizzante, ci è sembrata una fantastica opportunità per raccontare quel conflitto non dal punto di vista americano, esplorato già tantissime volte, ma vietnamita».

La vostra prima regola come produttori?

«Mai lavorare con gli stronzi, anche se hanno i soldi. Voglio che l’atmosfera sia rilassata, che tutti si sentano bene, dal primo all’ultimo ciak. Sui nostri set non c’è spazio per l’ego».

Un marito affettuoso

E come marito e moglie?

«Mai passare più di 2 settimane separati e lontani dai nostri figli (Exton Elias, 12 anni, e Avri Roel, 9, ndr). Non si transige: siamo sposati da 19 anni e vogliamo stare insieme il più possibile». 

Cosa rende la vostra collaborazione così efficace?

«La fiducia. So che le coprirò sempre le spalle, e viceversa (ha più volte dichiarato che a fargli superare la tossicodipendenza è stata lei e, quando a marzo ha ricevuto l’Oscar per Oppenheimer, ha detto sul palco: «Ringrazio mia moglie: mi ha trovato come un cucciolo abbandonato e, da brava veterinaria, mi ha riportato in vita», ndr). Sono cresciuto in una famiglia di artisti: mio padre e mia madre (Robert Downey Sr., regista, e Elsie Ann Ford, attrice, ndr) hanno sempre lavorato insieme, finché non si sono separati. Ed è così che mi piace fare con Susan. Definirei la nostra intesa magica».

Avete un motto?

«Never boring, mai annoiarsi. Sia sul lavoro sia a casa».

Tornando al cinema, un progetto di cui è particolarmente orgoglioso?

«Il documentario Sr., che ho prodotto nel 2022 per rendere omaggio a mio padre, morto l’anno prima, raccontando la sua vita da pioniere del cinema. Ma anche, a un livello più personale, per trovare delle risposte alle sue mancanze come padre quando ero piccolo. È in parte un tributo, in parte una seduta di terapia».

Il ruolo preferito

Il suo ruolo preferito?

«Sarà per sempre il Tony Stark di Iron Man: un idiota di prima classe con miliardi di dollari che gli danno poteri sovrumani! Anche se non mi spiego il perché, sono fiero che sia diventato un fenomeno della cultura pop (scoppia a ridere, ndr). Chissà che un domani… (i fan sperano in un quarto capitolo della saga, e sono girate parecchie voci al riguardo, ma la Marvel ha finora smentito, ndr)».

Gli assomiglia un po’?

«Magari! Se avessi i suoi soldi e il suo potere, mi chiederei: “Qual è il senso della mia vita? Come posso contribuire a qualcosa di più grande per l’umanità?”»

E lei contribuisce a qualcosa di più grande?

«Ci provo. Con un gruppo di amici ho creato FootPrint Coalition, un fondo di investimento per supportare le tecnologie green. Ho anche scritto, con l’ambientalista Thomas Kostigen, il libro di cucina Cool Food: le scelte che facciamo nell’alimentazione possono davvero influenzare la salute del Pianeta. E la nostra nuova casa a Malibu è costruita per ridurre al massimo le emissioni di carbonio».

Non si rilassa mai?

«Certo, quando sto con mia moglie e i nostri figli. Sono un tipo molto casalingo, amo occuparmi della casa. La domenica Susan mi lascia dormire fino a tardi, ma poi sono suo per il resto della giornata: come un maggiordomo, esaudisco ogni suo desiderio. E amo le arti marziali: sono la mia meditazione quotidiana, necessaria per corpo e mente».

Un collega che rispetta?

«Matt Dillon. Abbiamo la stessa età, ma da quando ci siamo conosciuti negli anni ’80, è sempre stato molto protettivo nei miei confronti. Forse aveva capito che rischiavo di finire male…».