lametta
Molte ragazze si tagliano braccia e gambe con le lamette da barba.

Autolesionismo: un taglio e poi il sollievo

Le lamette da barba, facili da nascondere. le maniche lunghe, anche con 40 gradi. E quelle ferite che sembrano anestetizzare ansia, rabbia, dolore… Il “cutting”, una pratica di autolesionismo, è sempre più diffuso tra le adolescenti. Ma cosa le spinge? E come aiutarle? Proviamo a spiegarlo in questa inchiesta

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Siamo online nella puntata del 26 maggio di Giornale Radio nella rubrica 12 minuti con Donna Moderna.

La storia di autolesionismo di Giulia

Non faccio in tempo a farle la prima domanda che Giulia, 20 anni, parte a raccontare. E lo fa senza fermarsi, senza pensarci, come se avesse urgenza di fare uscire quelle parole e, forse, con loro, anche il dolore che sente. «La prima volta è stato un graffio, sul braccio sinistro. Poi ho iniziato con gli elastici. Hai presente quelli colorati che si usano per chiudere le buste? Me li stringevo sui polsi, strettissimi, fino a farmi i lividi» spiega e con le mani mi mostra il gesto. «Poi è stata la volta dei pizzicotti, dei pugni sul muro. Mi laceravo la pelle, mi ferivo. Il dolore era un antistress, un modo per placare quell’ansia che sgorgava da dentro e che non riuscivo a gestire. Da lì alle lamette il passo è stato breve. Usavo quelle per il viso. Facili da trovare, facilissime da nascondere». Giulia si ferma, e da qui in poi i ricordi legati ai gesti di autolesionismo diventano più confusi, sfuocati, come qualcosa che, per fortuna, oramai si vede in lontananza. La porta del bagno chiusa a chiave e le lamette sugli avambracci o sull’interno delle cosce, prima piano, poi forte. Il sangue che comincia a uscire, lo spavento iniziale e subito dopo la leggerezza. Le cicatrici, le magliette a maniche lunghe anche con 40 gradi, le litigate con i suoi genitori.

I numeri dei ragazzi che praticano l’autolesionismo sono in aumento

Gesti, quelli di Giulia, inizialmente inconsapevoli, che a poco a poco però diventano rituali che danno al tempo stesso dipendenza, sicurezza e la momentanea illusione di sentirsi meglio. E in cui, purtroppo, sempre più ragazzi trovano conforto. A dirlo sono i dati, pochi e difficili da reperire: uno studio internazionale pubblicato di recente sul Journal of Child Psychology and Psychiatry rileva che in Europa oltre un quarto degli adolescenti (il 27,6%, età media 14 anni) pratica l’autolesionismo con gesti occasionali o ripetuti nel tempo.

Cosa dicono i dati in Italia?

In Italia il fenomeno dell’autolesionismo riguarda il 20% dei ragazzi. Significa che 1 adolescente su 5 nel nostro Paese almeno una volta nella sua vita ha compiuto atti autolesivi. Stime allarmanti che però fanno fatica a fotografare un fenomeno complesso che non ha confini definiti. «Quello dell’autolesionismo è un problema sempre più frequente: può insorgere già in preadolescenza, si inizia anche a 11 anni, e va di pari passo con l’aumento esponenziale della sofferenza dei ragazzi a cui assistiamo ormai da 15 anni, dovuto alla solitudine delle famiglie, allo smantellamento delle comunità, all’individualismo diffuso, all’attenzione alla performance» spiega Stefano Benzoni, neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza presso la Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e docente di Neuropsichiatria Infantile presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca. «Soprattutto, l’autolesionismo un fenomeno sempre più complesso e mutevole, che spesso si intreccia con disturbi come la depressione, l’ansia, e che comprende una pluralità di gesti: non più solo il cutting, i graffi o i pugni contro il muro, ma per esempio la partecipazione alle pericolose challenge online o la guida in stato di ebbrezza».

L’autolesionismo è un fenomeno soprattutto femminile

Ciò che è successo a Giulia, e che ha trasformato il suo corpo nel diario di quel male ingestibile, succede soprattutto alle ragazze. Lo confermano le stime dell’Osservatorio nazionale adolescenza: circa il 10% dei ragazzi che mette in atto comportamenti autolesivi lo fa in modo ripetitivo e la cronicità riguarda in prevalenza le ragazze (il 67% del totale).

Perché le ragazze “attaccano” il loro corpo

«Le problematiche dell’età evolutiva si suddividono in due grandi categorie: i disturbi esternalizzanti, che riguardano quelle situazioni in cui il disagio dell’adolescente si riversa verso l’esterno, con comportamenti spesso violenti e dirompenti; e i disturbi internalizzanti, che invece si rivolgono al sé» spiega Sofia Bignamini, psicoterapeuta che da anni lavora con gli adolescenti. «I primi coinvolgono soprattutto i maschi, i secondi hanno una netta maggioranza femminile. La spiegazione sta sia nella prospettiva biologica-genetica, che vede il femminile come una culla dove tutto succede all’interno e il maschile rivolto invece al fuori, sia in quella culturale, che lega il femminile all’accudimento, alla cura, alla comprensione dell’altro, al prendersi carico dei problemi e al sentirsi spesso in colpa e il maschile al fare e all’attribuire gli eventi negativi agli altri o a fattori esterni».

Quali sono i motivi che si nascondono dietro l’autolesionismo

Che siano disturbi che colpiscono più frequentemente le ragazze lo abbiamo detto. Ma qual è il motivo che si nasconde dietro a questi gesti di autolesionismo? Lo spiega, con una semplicità disarmante, Giulia: «Basta un taglio, poi il sollievo. La lametta incide la carne e allo stesso tempo scioglie la rabbia» racconta, mostrandomi le sue cicatrici. «Quel taglio è liberatorio, è il rimedio al dolore psicologico, all’ansia, al senso di vuoto che molti ragazzi non riescono ad arginare. Farsi male ha l’effetto di localizzare, circoscrivere quel dolore. E, quindi, di renderlo “riparabile”, proprio come la ferita che si procurano e che si può curare» spiega Sofia Bignamini.

I ragazzi oggi hanno un rapporto difficile con il loro corpo

Con l’autolesionismo i ragazzi vogliono infliggere una ferita al loro corpo che, soprattutto in adolescenza, sentono come qualcosa di estraneo, poco familiare. E quindi attaccarlo non è un problema. Ma la colpa del rapporto ambiguo che i ragazzi hanno con il proprio corpo è in parte anche degli adulti. «Come ha detto Ken Robinson, un famoso pedagogista, noi usiamo il corpo degli studenti come mezzo di trasporto della loro testa. Oggi c’è un disinvestimento totale sulla cultura del corpo, inteso come veicolo di saggezza e di esperienza, come quella cosa attraverso cui, fin da neonati, impariamo a conoscere il mondo» spiega Stefano Benzoni. «I ragazzi non sanno cosa voglia dire usare il corpo: come stare seduti, come stare fisicamente vicino agli altri. E quando vanno sui social, quando si fanno i selfie, non usano veramente il corpo, ma ne usano una rappresentazione, una mediazione iperbolica. È per questo che, quando si tagliano, ci dicono: “È l’unico modo per sentirmi”. È l’unico modo, cioè, per conoscere quel corpo negletto, per entrare in dialogo con una dimensione a loro sconosciuta».

Cosa possono fare i genitori

«Un giorno con la lametta mi sono incisa sul braccio “Ti odio”» dice Giulia. Era per sua madre. Per sbatterle in faccia tutto il suo dolore. Un dolore che, quando capita, è difficile da accettare per i genitori. «Per una mamma è terribile. C’è qualcosa di violento nel vedere quel corpo ferito. Lo vive come un attacco a lei, al suo stesso corpo, al suo ruolo di madre» spiega Sofia Bignamini. «L’importante è non chiudersi nella vergogna e nella rabbia, ma cercare di attivare un dialogo, di trasformare quella modalità primitiva di comunicazione in un linguaggio più maturo» conclude l’esperta. «Magari non ci si rende conto subito dei tagli perché i ragazzi tendono a nasconderli, ma se un figlio “funziona” peggio di come potrebbe, ovvero va male a scuola, ha pochi amici, non ha voglia di uscire, bisogna non sottovalutare la situazione. La frase “Adesso passa” non serve. Anche se non lo capiamo, è necessario cercare di dare valore al dolore che provano, senza giudicare» aggiunge Stefano Benzoni. «È forse controproducente chiedere a proprio figlio “Perché lo fai?”. Piuttosto potremmo dire: “Faccio fatica a capire questo tuo gesto, ma capisco che dietro ci può essere una fatica”. L’esperienza clinica insegna che è meglio usare la parola “fatica” al posto di “problema”. Perché la fatica è qualcosa che può succedere, il problema è qualcosa che ti fa sentire in colpa». Come per anni si è sentita Giulia. «Volevo ferirmi perché gli altri mi vedessero ferita e provassero compassione. Era l’unico modo per attirare la loro attenzione. Forse imploravo amore» sussurra. Un amore che oggi sembra aver trovato. Innanzitutto in se stessa e nella sua famiglia. Poi in Marco, che appena la vede le corre incontro a darle un bacio.

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