infezioni ospedaliere

Troppi morti in ospedale: perché?

Il caso di Massa, con 33 morti sospette in ospedale, riporta all'attenzione il numero di infezioni in corsia, che ogni anno in Italia causano 7.000 vittime: il doppio degli incidenti stradali. Perché si può morire in ospedale?

Ogni anno circa 7.000 pazienti in Italia muoiono a causa di infezioni ospedaliere: il doppio delle vittime degli incidenti stradali, tanto che qualcuno parla di “strage silenziosa”. A riportare l’attenzione su questa situazione è l’inchiesta aperta su 33 morti sospette all’ospedale Noe di Massa, che sarebbero state causate da possibili infezioni contratte nel reparto di medicina generale. Il primario è stato iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di omicidio colposo.

Ma se l’iscrizione è considerata un atto dovuto, per permettere esami irripetibili ai fini dell’inchiesta, ci si chiede come sia possibile morire in un luogo deputato invece alla cura dei malati e alla salvaguardia della vita. “È un problema molto antico, tanto che già Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi raccontava di come nessuno volesse entrare nel Lazzaretto per non rischiare di ammalarsi. I tempi fortunatamente sono cambiati, ma le infezioni correlate ai ricoveri ospedalieri rimangono una criticità generalizzata a livello mondiale e sicuramente in Italia, per diversi motivi. Basti pensare alla legionella: al di là dei casi eccezionali di contaminazioni in abitazioni civili, come nel bresciano e in provincia di Milano, si tratta di una patologia che si riscontra con più frequenza nei pazienti ospedalizzati” spiega a Donna Moderna il dottor Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano e Direttore sanitario dell’IRCCS Galeazzi di Milano.

Il caso di Massa

L’inchiesta è scattata dopo l’esposto del presidente del consiglio comunale Stefano Benedetti, in seguito a 33 decessi registrati nell’ospedale Noe di Massa, in Toscana. Si tratta di morti avvenute tra il 20 dicembre del 2017 e i 10 gennaio del 2018, dunque in un lasso di tempo di appena tre settimane, con più di una vittima al giorno. Immediata l’iscrizione nel registro degli indagati del primario di medicina legale, considerata un “atto dovuto” a tutela dello stesso indagato in occasione degli “esami irripetibili” nell’ambito dell’inchiesta. Secondo quanto denunciato da Benedetti i pazienti deceduti era entrati in ospedale per diverse patologie e sarebbero morti dopo “aver contratto batteri intestinali all’interno della struttura”. La Asl, dopo aver a sua volta querelato l’esponente politico, ha reso noti i dati sui decessi avvenuti anche in passato, confermando un trend che sarebbe fisiologico: “37 decessi nel reparto di medicina generale dal 20 dicembre 2015 al 10 gennaio 2016; 36 decessi nello stesso reparto dal 20 dicembre 2016 al 10 gennaio 2017 e 33 decessi dal 20 dicembre 2017 al 10 gennaio 2018”.

Ma perché si muore in ospedale?

“Sicuramente le infezioni correlate con l’assistenza sono in aumento, però bisogna anche ricordare che una parte consistente di queste infezioni vengono riscontrate in pazienti critici in terapia intensiva, sottoposti a varie e prolungate procedure invasive, oppure in pazienti frequentemente affetti da comorbosità (la presenza, in contemporanea, di più patologie) o con basse difese immunitarie. Le infezioni ospedaliere, infatti, possono anche essere causate dalla flora batterica endogena (cioè presente nell’organismo)” spiega a Donna Moderna Antonio Piralla, virologo dell’Unità di virologia molecolare – Dipartimento di Microbiologia e Virologia della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia.

“Diciamo che le comorbidità dei vari pazienti non aiutano a migliorare il quadro della situazione. In aggiunta noi siamo colonizzati dai batteri per cui, in situazioni particolari come le operazioni chirurgiche, lunghi periodi in terapia intensiva ecc, è possibile che l’organismo sia sottoposto ad una serie di attacchi da patogeni che il sistema immunitario a un certo punto non riesce più a contenere” aggiunge l’esperto. Non va però neppure trascurata la situazione degli ospedali: “L’aspetto di pulizia degli ambienti e prevenzione sono procedure che in alcuni casi sono state trascurate all’interno di strutture sanitarie. 

Ospedali e infezioni

Secondo il report dell’European Centre for Disease Control and Prevention (ECDC), che ha analizzato la situazione degli ospedali in 30 Paesi per un totale di oltre 230mila pazienti, ogni giorno un paziente ogni 18 ricoverati nei nosocomi dell’Unione contrae un’infezione batterica, per una media di 80mila infezioni al giorno. Il reparto più colpito è rappresentato dall’unità di terapia intensiva. Le infezioni più comuni risultano quelle del tratto respiratorio, del sangue, delle vie urinarie.

Alcune di queste possono essere trattate e risolte facilmente, ma altre possono minare la salute del paziente, specie se già debilitato. “Il problema delle infezioni ospedaliere non è azzerabile, ma certo contenibile. Va ricordato che all’interno di ogni nosocomio è presente un CIO, un Comitato Infezioni Ospedaliere: si tratta di un team mutiprofessionale, di cui fanno parte figure come quella del farmacista, dell’igienista, dell’epidemiologo o degli infermieri che hanno il compito di monitorare. A volte, purtroppo, finisce con l’essere solo un adempimento burocratico, senza agire in modo efficace” spiega Pregliasco.

Quali precauzioni?

“Le infezioni nosocomiali possono essere combattute con una corretta gestione del paziente da parte degli operatori sanitari e medici. Esistono alcune semplici pratiche da seguire, ma purtroppo non sempre sono rispettate per problemi di costi, mancanza di personale o addestramento corretto del personale. Ad esempio cambiarsi i guanti tra un paziente e l’altro, non toccare maniglie e superfici con i guanti sporchi, disinfettare le superfici e gli ambienti con sostanze adeguate. Inoltre una diagnosi rapida e mirata è una necessità imprescindibile per rendere il sistema sanitario più efficiente” dice Antonio Piralla. 

E in Italia?

Secondo il forum nazionale promosso dal Centro Studi Mediterranea Europa che si è svolto lo scorso luglio a Napoli, in Italia ogni anno in Italia si registrano circa 7.000 vittime a causa delle infezioni ospedaliere, il doppio di quelle degli incidenti stradali. Il record di infezioni dopo un intervento chirurgico spetta alla Valle d’Aosta, con 500 casi ogni 100mila dimessi. Seguono la Liguria con 454 e l’Emilia Romagna con 416. Lombardia, Veneto, Umbria e la città di Trento ne contano circa 300, il Lazio 211. Va meglio al Sud, dove solo la Calabria supera quota 200. La regione più virtuosa risulta l’Abruzzo con sole 70 infezioni.

Secondo il direttore dell’ECDC, Marc Stranger, molte infezioni ospedaliere potrebbero essere “evitate se si sostenesse la prevenzione e il controllo dei programmi, tra cui la sorveglianza delle infezioni associate all’assistenza sanitaria. Un percorso simile, abbinato all’uso prudente di antibiotici, aiuterà tutti gli attori coinvolti per proteggere i pazienti degli ospedali europei”.

L’abuso di antibiotici

Secondo il Rapporto 2016 sulle resistenze all’antibiotico e sull’uso di antibiotici rilevati nelle strutture Ospedaliere della Campania, sui circa 50mila casi di infezioni registrate negli ospedali, il 22% è causato dall’Escherichia Coli, il 12,5% dallo Staphylococcus Aureus e il 9% dal Klebsiella Pneumoniae. I reparti più a rischio si confermano quelli di Terapia Intensiva (20,60%), Medicina (15,33%) e Chirurgia (14,20%).

“Oltre alla corretta gestione del paziente, le strategie aggiuntive potrebbe essere due: nel caso di pazienti con patologie associate ad infezioni batteriche occorrerebbe fare una diagnosi rapida, che aiuti il medico a mettere a punto una terapia con antibiotici più mirati ed efficaci; nei pazienti ricoverati in reparti sensibili, come terapie intensive, cardiochirurgie o chirurgie, bisognerebbe applicare dei protocolli di screening per l’identificazione di portatori di stafiloccocco aureus meticillino-resistente nelle vie respiratorie o di patogeni multiresistenti  come il klebsiella pneumoniae o acinetobacter baumanii nel tratto gastroenterico. La loro eventuale presenza significa che questi soggetti svilupperanno un’infezione causata dai patogeni in questione, ma individuarli permetterebbe di sapere quali pazienti isolare dal resto del reparto per evitare trasmissioni. Consentirebbe anche di fornire un profilo di antibiotico-sensibilità in anticipo rispetto al possibile sviluppo di un’infezione” spiega Piralla.

Secondo il report europeo, tra tutte le specie isolate, lo staphylococcus aureus è risultato resistente alla meticillina, in oltre il 40% dei casi. Più bassa la percentuale di enterococchi resistenti alla vancomicina (10%). Si tratta di dati che confermano il ruolo degli antibiotici e i possibili effetti negativi di un loro abuso, che ha portato i batteri a sviluppare maggiori resistenze, diventando più aggressivi nei confronti del corpo umano

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