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L’infarto si può prevenire? Scoperti i geni

Uno studio americano ha individuato i geni collegati all’infarto: sono quelli le cui mutazioni innescano cambiamenti nelle cellule muscolari lisce, a loro volta resonsabili dell'infarto. Aumentano così le possibilità di prevenzione, soprattutto per le donne

L’infarto e l’ictus potrebbero avere nuove possibilità di prevenzione, grazie alla conoscenza del patrimonio genetico, cioè il Dna di ciascuno di noi.

Dal Dna la prevenzione dell’infarto

Questo vale per tutti e in particolare per le donne, per le quali è notoriamente più difficile la diagnosi di queste patologie cardiache e l’intervento è spesso meno risolutivo. La strada passa proprio dalla conoscenza dei geni, che sono uno dei fattori alla base delle malattie a carico del cuore. Secondo i dati della Fondazione Spagnola per il Cuore, la probabilità di decesso in seguito a un accatto cardiaco, infatti, è del 30% per gli uomini e del 50% per le donne.

Ma una nuova “arma” potrebbe arrivare dalla scoperta di alcuni geni, responsabili del rischio di malattia coronarica, da parte di un team di ricercatori dell’Università della Virginia, negli Stati Uniti. 

Lo studio sui geni responsabili dell’infarto

I ricercatori hanno identificato le varianti genetiche che influenzano il rischio di malattie cardiovascolari come ictus e infarto, esaminando le cellule di 151 donatori di cuore sani, appartenenti a diverse etnie. L’obiettivo era capire che tipo di relazione c’è tra il patrimonio genetico degli individui e l’attività delle cosiddette ‘cellule muscolari lisce’ o smg, cioè quelle che rivestono le arterie. Sono quelle che concorrono alla formazione delle placche di grasso che portano ad aterosclerosi, cioè la causa delle malattie coronariche. Sono le placche, infatti, che staccandosi dalle pareti dei vasi sanguigni, sono responsabili di ictus o infarti. Ecco che si è visto come «quasi la metà delle varianti genetiche che aumentano il rischio di malattia coronarica influiscono anche sul comportamento delle cellule muscolari lisce», ha spiegato Rédouane Aherrahrou, uno dei ricercatori americani.

L’infarto può avere una componente ereditaria?

«La scoperta americana è interessante perché finora si è cercato di scoprire quanto la componente genetica possa essere associata ai rischi di malattie aterosclerotiche. Si tratta di patologie complesse e multifattoriali, dove sono molti i fattori da tenere in considerazione. Quello che si è scoperto adesso, però, è che non conta solo la presenza o meno di un gene e la sua mutazione, come per esempio in altre malattie come la fibrosi cistica: ciò che può far aumentare il rischio di infarto o ictus è come la mutazione del gene innesca un meccanismo più complesso che porta le cellule muscolari lisce a una produzione maggiore di placche, che a sua volta fa aumentare la probabilità di patologia cardiovascolare», spiega Giovanni Esposito, Ordinario di cardiologia all’Università Federico II e presidente del Gise, la società italiana di cardiologia interventistica.

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La novità: verso nuovi farmaci per l’infarto

La scoperta ha due conseguenze importanti: «La prima è che aumentano le conoscenze sui meccanismi genetici alla base di queste patologie. In futuro, quindi, si pensa di poter mettere a punto farmaci specifici che agiscono sulle proteine che concorrono alla formazione delle placche, partendo dai geni che le producono. «Gli attuali farmaci che i medici prescrivono – ha aggiunto Civelek, primo curatore dello studio americano – lavorano per ridurre i fattori di rischio per le malattie cardiache, come i farmaci per abbassare il colesterolo. Tuttavia, dobbiamo identificare i farmaci che prendono di mira la malattia proprio dove si sviluppa. Ecco perché è importante trovare i geni responsabili dello sviluppo della malattia nelle arterie, perché è lì che si formano le placche”. «In pratica noi ora sappiamo che a un certo punto alcuni meccanismi genetici portano queste cellule da uno stato di quiescenza a una proliferazione anomala. Questo non solo apre la strada a nuovi farmaci futuri, ma nel presente ci permette una maggiore prevenzione: se so che una persona ha una predisposizione genetica, starò ancora più attento nel controllo di altri fattori che sono corresponsabili della malattia», spiega l’esperto.

Cosa cambia per le donne

Questo tipo di approccio potrebbe essere ancor più utile per le donne, nelle quali la diagnosi di malattia cardiovascolare come l’infarto è più difficile e meno accurata. In genere arriva con un forte ritardo rispetto agli uomini, perché i sintomi sono differenti e a volte non riconosciuti nell’immediato. Per esempio, spesso manca il tipico dolore al petto o al braccio, che invece si presenta in un’altra sede o è confuso con altri disturbi. A pesare, poi, è l’effetto degli ormoni e degli estrogeni in particolare: non a caso il rischio di infarto e ictus aumenta con la menopausa quando questo effetto protettivo viene meno. «Si tratta di malattie multifattoriali, che quindi dipendono da più fattori. Tra questi ci sono gli estrogeni, che modulano la proliferazione delle cellule muscolari lisce che concorrono alla formazione delle placche. Quando gli estrogeni vengono meno, aumentano i rischi e si assiste a un livellamento delle probabilità di malattie cardiovascolari tra uomini e donne», conferma Esposito. «Chiaramente non si tratta degli unici fattori, perché quelli ambientali hanno il loro peso: si tratta di colesterolo alto, diabete, fumo e obesità», conclude l’esperto.

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