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La conciliazione va fatta con azioni concrete sul lavoro

L'editoriale della direttrice di Donna Moderna Maria Elena Viola in occasione dell'intervista esclusiva alla premier Giorgia Meloni: «Fate lavorare noi donne ma non mandateci in burn out»

Ma come fa a far tutto? Si chiedeva Allison Pearson in un libro del 2002 ribattezzato un po’ pomposamente da Oprah Winfrey La bibbia della mamme che lavorano. Ma in effetti quel libro, noi giovani mamme sulla rampa di lancio di promettenti carriere, ce lo leggemmo tutte. Felici di scoprire che non eravamo le sole a praticare il distanziamento dai colleghi d’ufficio per evitare un focolaio di pidocchi o a spacciare per torte fatte in casa da portare alla festa della scuola pessime crostate del super sbriciolate all’uopo per simulare un aspetto più vero (le più spregiudicate condividevano persino la ricetta).

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Il problema non è l’organizzazione ma il carico emotivo

Eravamo l’avanguardia delle multitasking, ultimo modello di serie delle donne lavoratrici, e, benché stressatissime e in affanno, ci sentivamo piuttosto fiere di tracciare il cammino per una nuova genìa di femmine dotate di superpoteri per la quale era già stato coniato uno slogan: Voglio tutto! Poi qualcuna è andata in cortocircuito e abbiamo capito che il software andava “aggiornato”. Oggi sappiamo che non basta un marito collaborativo e una task force di nonne e di tate per reggere sul lungo una vita da acrobate. Il problema non è l’organizzazione militare, per la quale siamo tutte mediamente portate, ma il carico emotivo.

Il peso dell’assenza pesa sulle mamme, più che sui figli

A dover gestire il peso dell’assenza non sono tanto i figli, che crescono bene anche con l’ausilio dei nostri surrogati, ma noi, con cuore e testa divisi in due, e un tarlo in sottofondo che ci dice che forse ci stiamo perdendo qualcosa e che nessuno ce la ridarà. Non un motivo sufficiente per mollare, ma una case history dal ricco campionario su cui iniziare a ragionare per tentare di tracciare le coordinate di un nuovo paradigma, meno sacrificale e più produttivo.

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Le dimissioni di Jacinda Ardern squarciano il velo

Le recenti dimissioni per “esaurimento di energie” della premier neozelandese Jacinda Ardern – 42 anni e un compagno, Clarke, cui al temine del discorso d’addio ha chiesto di sposarla, più una figlia di 4 anni, Neve, allattata nel palazzo delle Nazioni Unite – sono un messaggio fortissimo. Basta far finta che vada bene così. E veniamo a Giorgia (mi si perdoni l’impudenza, ma prendo alla lettera l’invito della Presidente Meloni a chiamarla come più ci piace: il nome proprio accorcia le distanze). Alla fine di gennaio festeggia i primi 100 giorni del suo mandato. Giorni nei quali non ha perso tempo, chiudendo una legge di bilancio con un timer sul collo, incontrando capi di Stato e di governo, “cinguettando” con Zelensky, facendo visita al Papa, gestendo “dissapori” su migranti e accise, postando, presenziando, sorridendo.

Giorgia Meloni premier: la prima volta per una donna in Italia

Anche chi ha storto il naso al momento del suo insediamento – un po’ per desuetudine e diffidenza nel vedere una donna sullo scranno più alto di Palazzo Chigi, un po’ per smacco e sorpresa nel constatare che a conquistare il primato di “prima ministra” del nostro Paese sia stata una leader di destra con poca tradizione di battaglie femministe – si è dovuto convincere che, comunque la si pensi, quel posto lo merita. Non solo per la vittoria strabordante alle elezioni, ma anche perché studia. Come la maggior parte delle donne che arrivano nelle stanze dei bottoni, è una sgobbona. E ha preso il suo incarico molto seriamente, entrando in men che non si dica nella top ten di Forbes delle 100 donne più influenti del Pianeta (prima di lei ci sono Ursula von der Leyen, Christine Lagarde e Kamala Harris) e in quella del Times delle 20 persone che potrebbero cambiare il mondo. In meglio o in peggio lo dirà la Storia.

Giorgia Meloni mamma nella nostra intervista esclusiva

In questa fitta agenda, ne siamo certe, ha dovuto incastrare anche i suoi doveri di madre. Non c’è incarico istituzionale che tenga di fronte a una bambina di 6 anni che ti chiede: «Mamma, a che ora torni stasera?». Il cuore, come lei stessa ci ha confessato, «diventa una nocciolina». E il superomismo di Macron, le strette di mano di Xi Jinping, i sondaggi di Vespa arretrano sullo sfondo. Ginevra viene prima di tutto. Insieme alla Nazione, certo. È conciliare le due cose, ahinoi, che diventa difficile. Per lei, come per tutte, anche se per noi comuni mortali lo sforzo, grazie a Dio, è su scala ridotta. Ecco perché ci tenevamo tanto a farle l’intervista esclusiva, la prima “personale” che la premier rilascia dall’inizio del suo incarico (visto il tempo tiranno, un grazie doppio). Per sapere com’è cambiata la sua vita in questi primi 100 giorni al comando, ma anche per sollecitarla a trovare soluzioni per conquistare finalmente quel work-life balance a cui tutte ambiamo. E che è fatto in primis di azioni concrete per agevolare, non scoraggiare, il lavoro femminile. E poi di un cambio di mentalità che renda normali, non più eccezionali, le donne ai vertici. In questo la sua vittoria ha già segnato una tappa importante. Ma è solo l’inizio (e l’uso delle desinenze giuste, si fidi, accelera). Insomma, il messaggio è chiaro: fateci lavorare. Fateci smantellare pezzo pezzo i soffitti di cristallo, ma senza mandarci in burn out, com’è successo a Jacinda, e senza farci sentire madri inadeguate. O, peggio, sole e sopravvalutate mosche bianche.

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