Coronavirus, perché slitta il picco di contagi

Perché sono fallite le previsioni sui risultati della chiusura dell'Italia? Perché il picco che era atteso per il 18, poi per il 20 marzo, è slittato? A incidere sono anche i comportamenti individuali

Ci si aspettava di raggiungere il picco nel numero di contagi intorno alla metà di marzo, poi la data è slittata man mano fino a ipotizzare il 22, ma ormai è destinata a slittare ulteriormente. Secondo le previsioni dei modelli matematici, infatti, occorrerà aspettare ancora qualche giorno, forse una decina, arrivando intorno al 28/29 marzo perché si possano avere i primi risultati positivi nelle misure di contenimento del coronavirus. Ma perché questo slittamento?

Norme meno severe e troppo disattese

Secondo gli esperti matematici e virologi il motivo principale è lo scarso rispetto delle norme di isolamento sociale decise per contenere la diffusione del coronavirus. L’andamento del contagio in Italia è diverso da quello in Cina, dove le norme sono state molto stringenti e applicate in modo altrettanto severo. «I cinesi hanno imposto misure rigorosissime una settimana dopo l’esplosione del contagio e in 100 giorni la curva di diffusione si è completata, raggiungendo il picco e poi iniziando a decrescere. Da noi c’è stata una fase di incertezza inziale, con la creazione di una zona rossa iniziale molto ristretta (a Lodi e una decina di altri comuni), poi diventata arancione (Lombardia e Veneto), infine con provvedimenti che hanno riguardato tutta l’Italia. È normale aspettarsi un andamento diverso rispetto a quello cinese» spiega il professor Giorgio Palù, docente di Virologia e microbiologia all’Università di Padova.

Le tre previsioni

«Il 50 per cento degli italiani non ha rispettato le norme di isolamento sociale e questo ha inciso in modo negativo sulle previsioni, secondo cui avremmo dovuto registrare un primo assestamento in questi giorni» spiega Barbara Guardabascio, docente a contratto di Statistica alla LUISS e a Tor Vergata e ricercatrice dell’ISTAT. Insieme al collega Federico Brogi, e in modo del tutto indipendente dall’Istituto di statistica, hanno sviluppato tre possibili scenari:

Il caso cinese: nel primo modello, partendo al primo caso accertato il 19 gennaio, si sarebbe dovuto raggiungere il picco intorno al 14 marzo, per poi avere la fine del contagio il 31 marzo. Ma va tenuto presente che le autorità cinesi avevano sospeso aerei, treni, autobus, traghetti e poi anche la circolazione delle auto private. Erano state rese obbligatorie le mascherine nei luoghi pubblici e avevano permesso l’uscita di una sola persona per nucleo familiare ogni due giorni.

Il caso italiano: nel secondo modello, considerando le restrizioni man mano imposte dal Governo nel nostro paese, si sarebbe dovuto raggiungere il picco intorno al 18 marzo, con un numero complessivo di contagiati nel momento di massima diffusione di circa 92mila e la fine dell’epidemia (contagi zero) al 29 aprile.

Assenza di compliance o collaborazione: il terzo modello è quello più infausto, ma anche imprevedibile, perché si basa sulla considerazione che ancora troppi cittadini non rispettino le norme.

«L’obiettivo non è quello di consultare un oracolo che ci predice il futuro, ma quello di provare a individuare gli aspetti più rilevanti del fenomeno e tra questi c’è senz’altro il rispetto delle norme restrittive decise per fermare il virus» spiega Guardabascio che con Brogi aggiorna costantemente le previsioni a seconda del variare dei parametri (numero di contagi comunicati dall’Istituto Superiore di Sanità, tamponi, persone in isolamento, denunce di violazione delle norme, ecc.).  

Epidemia fuori controllo?

Il timore è quello di una diffusione del virus oltre le aspettative: «Nessuna epidemia è durata all’infinito, né quella di vaiolo né quella di influenza spagnola, che pure ha fatto 70 milioni di vittime. Qualsiasi microbo primo o poi trova un ostacolo, che può essere naturale (la distanza tra popolazioni) oppure farmacologico, come un vaccino. È immaginabile che in un anno e mezzo faccia il giro del mondo, tornando a ondate, ma trovando una maggiore immunità. Certo colpisce che ci sia una così alta diffusione e un tasso di vittime elevato: 9-10 per cento rispetto all’1-2 per cento della Cina. Sicuramente da noi c’è stata e c’è un’eccessiva ospedalizzazione: in Lombardia il 60 per cento dei positivi è ricoverato, con un rischio altissimo per se stesso e per il personale sanitario. Avremmo già dovuto impararlo dalla SARS: vanno ricoverati solo i malati gravi, altrimenti si rischia un effetto Diamond Princess, la nave da crociera trasformata in un lazzaretto» spiega Palù. «Finora l’unica curva di decrescita si è registrata a Lodi, dove infatti l’ospedale disponibile è piccolo. Però è accaduto che da lì i malati di COVID-19 siano stati subito portati altrove, molti a Bergamo, che ora infatti è alle prese con una situazione drammatica» conclude il virologo.

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