Coronavirus, quando è necessario il ricovero

Dall'autoisolamento alla chiamata al medico di base e al 112, fino al ricovero: con gli ospedali in difficoltà e il contagio in espansione è necessario sapere bene cosa fare quando si avvertono i primi sintomi

Con gli ospedali al collasso e la corsa ad allestire nuovi reparti solo per i malati di COVID-19, o intere strutture ex novo (dalle tende per ospedali da campo, a palestre riattrezzate appositamente) diventa ancora più importante capire quando è realmente necessario il ricovero in ospedale per contagio da coronavirus. Queste le indicazioni degli esperti.

L’influenza stagionale è in esaurimento

È stato detto e ripetuto, i primi sintomi del contagio da coronavirus possono essere confusi con quelli di una influenza stagionale, anche se in questo periodo ormai la diffusione di quest’ultima è in esaurimento. Ma anche un semplice raffreddore, che si presenti con febbre e tosse, potrebbe essere scambiato per COVID-19. Che fare? Il consiglio è quello di rivolgersi ai medici di famiglia. Ma quando si rende necessario il ricovero in ospedale? Come ha avuto modo di spiegare di recente Giuseppe Cipolla, pneumologo all’ospedale di Lodi che si è trovato a gestire i primi pazienti, il coronavirus ha due caratteristiche: è estremamente contagioso e può provocare, fino al 20% dei casi, polmoniti severe.

“Non mi sento tanto bene”: cosa fare

«In caso di sintomatologia similinfluenzale anche lieve o febbre, consultare il medico e comportarsi comunque da malati: stare lontani dagli altri (specie se anziani), non cucinare, non uscire, non andare al lavoro se ancora si è in attività fuori casa. Il medico poi dirà se può essere COVID-19 o no. In ogni caso, non uscire e mantenere le distanze dagli altri fino a guarigione completa. Un atteggiamento molto prudenziale per evitare di fare ammalare anche gli altri familiari. Se la sintomatologia è severa e c’è anche difficoltà a respirare, si può chiamare il 112/118 o i numeri regionali. In ogni caso non presentatevi al pronto soccorso senza avvertire per evitare di contagiare altre persone» spiega Fortunato D’Ancona, dell’Istituto Superiore di Sanità.

Cos’è il triage telefonico

«Se si sta male, se si manifestano i sintomi classici del Covid-19, che in una prima fase sono gli stessi di influenza e raffreddore – dunque tosse, febbre, malessere generale – si telefona al medico, perché negli studi non si entra più se non previo appuntamento. È per questo che è stato creato il triage telefonico: il medico chiede che sintomi si hanno, se si è stati in contatto con soggetti positivi o a rischio e soprattutto si chiede come sta il paziente» premette Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di Medicina Generale.

«Se chi chiama dice di stare davvero male, ad esempio si sente svenire o ha il respiro corto, che è il vero discrimine tra influenza stagionale e coronavirus, allora viene allertato il 118, mandando un’ambulanza» spiega ancora Cricelli. Una volta in ospedale si procede con il tampone, per verificare la positività. In caso negativo potrebbe trattarsi di una polmonite di tipo batterico, per la quale non è detto che sia necessario il ricovero.

Il ricovero per COVID-19

«La maggior parte dei positivi generalmente presenta un quadro clinico lieve o che comunque permette di essere in condizione di tornare a casa. Da qui il paziente viene seguito a distanza, con tre contatti telefonici giornalieri» spiega il presidente della Società di Medicina Generale. «Spesso ci si avvale anche di strumenti come il saturimetro, che misura il livello di scambio di ossigeno. Questo proprio perché il vero discrimine nella gravità della malattia sta nelle difficoltà respiratorie: finché resta superiore al 90% e intorno al 94-95% non ci sono allarmi particolari. Ovviamente va valutato se si tratta di un soggetto che ha già altre patologie, dal tumore al diabete, che possono creare maggiori difficoltà» spiega il medico.

«Per quanto riguarda i ricoverati per COVID-19, invece, devono restare in ospedale, in reparti specializzati e dedicati solo al coronavirus, dove le precauzioni sono aumentate per evitare la diffusione del contagio. Anche in questo caso, solo una percentuale minore, intorno al 6-10% necessità di terapia intensiva, dunque di essere intubato, collegato a un ventilatore o sedato, mentre si somministra una terapia, che ad oggi e in mancanza di un vaccino è con i farmaci a disposizione» spiega Cricelli.


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L’età conta, ma fino a un certo punto

Se gli esperti confermano che i bambini sembrano avere un sistema di protezione tale per cui si ammalano meno e con sintomi molti lievi se non nulli, il coronavirus non ha colpito solo gli anziani. Secondo Cipolla, per esempio, a Lodi si sono registrati numerosi casi nella fascia tra i 40 e i 60 anni, tra soggetti in salute il cui sistema immunitario, però, ha reagito in modo molto forte, causando la cosiddetta ARDS, la sindrome da distress respiratorio, associata a forme severe di polmonite. La differenza rispetto alla popolazione anziana, però, è che la prognosi è decisamente più favorevole. «Si tratta di una malattia che ha decorso rapido nella maggior parte dei casi. A Pavia noi abbiamo una degenza media di 5 giorni per i casi non gravi, ma che naturalmente sale nei soggetti che richiedono un trattamento di terapia intensiva» dice Raffaele Bruno, Primario della Struttura di Malattie Infettive della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia.

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