Qualche settimana fa, Michela Murgia tracciava sulle nostre pagine un distinguo che vi ha fatto molto discutere. Quello tra chi, alla riapertura, non vedeva l’ora di tornare a fare le cose di prima. E chi, invece, ha scoperto nella zona rossa uno stato d’animo, un rifugio. Credevo di appartenere alla seconda categoria: la forzata chiusura l’ho vissuta come una opportunità di fare pulizia, dentro e fuori. Di concentrarmi su poche persone. Di focalizzarmi su ciò che mi fa stare bene. E ho visto nella riapertura la minaccia del rumore di fondo che tornava a inghiottire la mia sottile voce interiore, che finalmente esprimeva forte e chiaro ciò che veramente desidero.

A 2 settimane dal fatidico 26 aprile, però, devo ammettere di somigliare di più alla prima categoria. Sono uscita timidamente il mercoledì, al terzo giorno della riapertura, per un aperitivo sotto casa, con una pioggerellina leggera che non riusciva a infastidirmi e da allora non ho più smesso. Mi sento ormai parte di quell’arredo urbano che ha completamente trasformato le nostre città. Tavolini, sgabelli, ombrelloni a righe, sdraio… E io che, con indosso un maglione pesante per reggere all’aperto fino al coprifuoco, rivedo chi ho perso di vista.

Ho ripreso quelle che qualche mese fa, su queste pagine, ho definito conversazioni interrotte. Le lunghe chiacchierate con persone che, è vero, non ho sentito il bisogno di frequentare e senza le quali sono vissuta bene, ma la cui voce arricchiva la mia esistenza forse perché slegata dal bisogno. Persone che rappresentano il punto di vista, lo sguardo sul mondo destabilizzante, il dono prezioso della socialità.

Per di più, essendo tutti reduci da un viaggio più o meno faticoso, affascinante, rivelatorio, questi incontri assomigliano a quelli di fine estate, ma di un’estate incredibilmente lunga, pregna di racconti, dolori, scoperte, emozioni inedite. E, così come un pianeta si definisce nello spazio in relazione agli altri, anche io mi rendo conto di dove sono osservando la posizione degli altri. Ed è sorprendente accorgersi di quanta strada abbiamo fatto. Tutti quanti. Non siamo gli stessi di prima e non torneremo a fare la cose di prima. Anche se i progetti continueremo a tesserli seduti al tavolo di un bar, sotto un ombrellone a righe.

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