Con lo smart working addio pausa pranzo (e non solo)

Lavorare da casa ha tanti vantaggi ma anche pesanti ricadute sull'economia dell'indotto: bar, ristoranti, trasporti, negozi, case del centro. Una scelta irreversibile? Sì, ma va ricalibrata. Così si apriranno nuove prospettive di lavoro per tutti, giovani compresi

Il lockdown ci ha fatto scoprire, o rivalutare, il lavoro da casa. L’Italia ha affrontato l’emergenza Covid-19 ricorrendo, dove possibile, alle prestazioni senza vincoli di orario o di luogo. Il 90% delle grandi imprese e il 73,1% delle aziende medie hanno fatto ricorso allo smart working durante gi ultimi mesi, secondo l’ultimo rapporto Istat sulla situazione e le prospettive del Paese. Il lavoro da casa è un’opportunità offerta dal digitale, per produrre di più, risparmiare e inquinare meno. Ma al tempo stesso delinea scenari nuovi, complessi, finora inimmaginabili. Una rivoluzione che oltre a numerosi vantaggi, potrebbe produrre infatti anche molti effetti collaterali e ripercussioni sulle città.

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La riorganizzazione del lavoro imposta dal ricorso massiccio allo smart working potrebbe portare molte aziende a tagliare il personale, lamentano alcuni. A subire un grosso contraccolpo sarebbero soprattutto le attività dell’indotto. Ci si chiede, per esempio, cosa potrebbe accadere a grandi città come Roma, Milano o Torino, se i dipendenti avessero la possibilità di lavorare sempre da remoto, e dunque, anche valutare un eventuale ritorno – per chi si era trasferito in cerca di occupazione – alle località di provenienza.

L’indotto in crisi: bar, ristoranti, negozi, trasporti

A soffrirne di più sarebbero bar e ristoranti. Ma anche i trasporti, come taxi, bus e metro dovrebbero fare i conti con sempre meno richieste. Negozi, i cinema e teatri potrebbero arrivare ad abbassare la saracinesca. Senza considerare che lo svuotamento delle metropoli potrebbe causare un calo dei prezzi delle case, a causa della ‘fuga’ dei dipendenti verso altri lidi in cui soggiornare a prezzi più bassi. A lanciare l’allarme sono gli esercenti della Lombardia a cui si aggiungono quelli del Piemonte. Un sondaggio, condotto da Confesercenti a Torino, ha dimostrato che per quasi sei locali su dieci tra bar e ristoranti del centro cittadino, gli incassi nell’ultimo mese si sono dimezzati a causa della forte diminuzione della clientela. Alcuni temono la chiusura, nella migliore delle ipotesi la riduzione del numero dei dipendenti. Perciò l’organismo di categoria dei negozianti ha lanciato una petizione su Change.org invocando con urgenza “un piano di rientro dei dipendenti nelle sedi di lavoro”. Si chiede, in parole povere, l’intervento della Regione per tentare il salvataggio di tutte le attività commerciali legate alla pausa pranzo.

Indietro non si torna: lo stile di vita cambierà

Difficile arginare la crisi dell’indotto e impossibile tornare alla vita di prima.  «La crisi è un setaccio. Alcuni settori scompaiono e altri emergono, ne nascono di nuovi o si sviluppano. Credo che lo street food non sparirà, insieme a ristoranti, bar e tavole calde. Ma di certo dovrà cambiare e far fronte a costi e procedure aggiuntive» spiega il sociologo dei consumi Mauro Ferraresi, docente allo IULM di Milano.  «Non si può più tornare alla vita di prima. Durante i tre mesi del confinamento abbiamo fatto ‘work from home’, non smart working. Ci sarà quindi un’ulteriore evoluzione. Il Covid ha dato luogo a ciò che gli storici chiamano una periodizzazione, cioè un evento che ha creato un nuovo periodo, come la Prima guerra mondiale ha sancito la fine della belle époque. Quello che ci sarà dopo è un nuovo stile di vita, non migliore né peggiore, ma diverso. È impossibile tornare al periodo precedente, bisogna essere aperti al nuovo».

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Va premiata l’iniziativa imprenditoriale

Come fare dunque per incentivare i consumi nei settori che hanno subito lo choc maggiore? «Servono tre cose: una guida politica più lungimirante, la volontà di rischiare da parte dei player economici e infine una deburocratizzazione. Bisogna eliminare le tante carte e i passaggi necessari a sviluppare nuove idee, che scoraggiano le iniziative imprenditoriali. Ci sarà un calo di oltre il 10% del Pil e una risalita del 6-7 per cento entro il prossimo anno. Pensiamo ai nostri nonni che dopo il 1945 furono alle prese con la ricostruzione post bellica dell’Italia. Dal ‘58 a ‘62 l’Italia è diventata la settima potenza mondiale. Oggi possiamo chiamarla ripartenza. Saremo all’altezza dei nostri nonni?».

Lavorare al Nord dal Sud: l’idea del South working

Se da un lato gli esercizi commerciali e il settore immobiliare nei centri storici temono il peggio, c’è invece chi intravede nella diffusione del lavoro da remoto una grossa opportunità. Come gli ideatori del progetto pilota “South working – lavorare dal Sud”, un gruppo di trentenni che immagina il lavoro agile come un’occasione per tanti lavoratori di fare ritorno al Sud e racconta le proprie idee tramite l’omonima pagina Facebook. Il proposito è abbandonare i grandi centri urbani sovraffollati, dove il costo della vita è spesso insostenibile, per ripopolare le città d’origine del Meridione, e qui vivere a costi più bassi. Continuando però a prestare servizio a distanza. «Se vengono costruite le condizioni di contorno, e dunque se le autostrade informatiche funzionassero, potrebbe essere fattibile una ripopolazione del Mezzogiorno e l’utilizzo delle risorse e dei talenti meridionali senza lo sforzo di una trasferta di una vita al Nord» commenta con cauto ottimismo il sociologo Ferraresi.

Smart working non vuol dire fuga dalle città

Restare nelle grandi città o fuggire, dunque. E se esistesse una soluzione intermedia? «C’è un equivoco. Lo smart working non è lavorare solo da casa. Ma aggiornare il nostro modo di produrre a una versione 2.0, in cui l’individuo lavora per obiettivi, abbraccia le tecnologie digitali e ha maggiore flessibilità e libertà nella scelta del luogo in cui opera, in simbiosi con il resto del team aziendale» replica Andrea Solimene, co-fondatore dell’acceleratore di business Seedble, consulente di innovazione ed esperto di smart working. «Il lavoro si adatta allo stile di vita. C’è chi vive lo smart working in ufficio cinque giorni su cinque e chi si trattiene sei mesi in una baita in montagna. Ciò che si persegue è il benessere individuale del lavoratore e quello collettivo dell’azienda. È un fraintendimento associare lo smart working solo al lavoro da casa o usando internet. È qualcosa di molto più complesso, che rivede gli schemi, i processi e le competenze aziendali».

Tante opportunità di sviluppo

Solimene è d’accordo sull’inevitabile trasformazione, oggi in atto: «L’ufficio avrà sempre la sua centralità, ma giocherà un ruolo di aggregatore. Non possiamo immaginare gli stessi ritmi pre – Covid. Ogni cambiamento comporta vittime nel breve periodo, ma pensiamo ai tanti effetti positivi sul futuro. I paesi limitrofi si ripopoleranno con conseguente miglioramento o sviluppo di servizi. Si potranno ad esempio perfezionare i collegamenti tra paesi e città, ridurre il digital divide e aumentare le infrastrutture in fibra ottica. Le città diventerebbero più vivibili e si ridurrebbero le emissioni di CO2. Si potrebbero sviluppare iniziative imprenditoriali nel settore agroalimentare oltre al turismo rurale ed enogastronomico, ma anche digitalizzare tanti servizi e processi delle aree urbane. Quante grandi città ci sono in Italia? Facciamo rivivere un nuovo Rinascimento al nostro Paese. Pensare di tornare come prima è da folli. Dobbiamo reinventarci, trovare un equilibrio nella nuova normalità, magari ragionando con la testa delle nuove generazioni, cresciute con poche certezze sul futuro. A distanza di cinque anni ricorderemo questo periodo storico come periodo chiave per lo sviluppo italiano. Abbiamo gli ingredienti per fare la differenza: dobbiamo mettere da parte pian piano la burocrazia e re-distribuire la ricchezza».

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