C’è un mondo parallelo intorno a Elizabeth Strout. È il mondo popolato dai personaggi dei suoi libri: Olive Kitteridge, Amy e Isabelle, Lucy Barton e William, i fratelli Burgess. Uomini e donne reali, vicini a noi con i loro difetti e fragilità, che abbiamo imparato ad amare leggendo i suoi romanzi. La scrittrice americana, Premio Pulitzer per la narrativa nel 2009, e attesissima al Salone del libro di Torino che inaugurerà il 9 maggio, ne parla con affetto, come se fossero gentili vicini o parenti stretti. La complessità delle loro personalità emerge dalla sua prosa apparentemente semplice ma così acuta.

Sono una fan di Elizabeth Strout, l’ho incontrata e ci siamo parlate via Zoom in diverse occasioni. E ogni volta mi sorprendo per la sua gentilezza e generosità, per come riesce a farmi entrare nel suo universo così da farmi immaginare il Maine con i suoi boschi, le case, il mare. Il luogo dove lei vive quando non è a New York e dove si rifugia Lucy insieme a William nel suo ultimo romanzo: Lucy davanti al mare (Einaudi).

Elizabeth Strout: torna la “sua” Lucy

Lucy Barton, che abbiamo già conosciuto nei precedenti libri, fa la scrittrice ed è cresciuta nel Maine, proprio come Elizabeth Strout. Tra le pagine di quest’ultimo romanzo ci sono la pandemia e il lockdown che abbiamo vissuto tutti, ma l’autrice non usa toni apocalittici, non indugia sulla sofferenza. C’è invece tanta malinconia, la consapevolezza di assistere a un cambiamento epocale, un forte senso di smarrimento, la leggerezza data dal lasciarsi trasportare dagli eventi, una grande umanità. «Avevo appena finito Oh William!, il romanzo del 2022 con gli stessi personaggi, ndr, che si riallacciava a sua volta a Mi chiamo Lucy Barton, uscito nel 2016, e Lucy e William erano ancora nella mia testa, letteralmente» mi spiega la scrittrice, seduta su una poltrona azzurra vicino alla finestra della sua casa. «Improvvisamente è scoppiata la pandemia e ho sentito l’esigenza di raccontarla. Di parlare di come vivevamo. Ho pensato di farlo dal punto di vista di Lucy e ho cominciato a guardare tutto attraverso i suoi occhi, di nuovo. Qui però Lucy è in un’altra parte del Maine rispetto al precedente romanzo, è sulla costa. Vede l’oceano per la prima volta, tutto gira intorno a lei. Non mi è mai capitato di scrivere qualcosa di così vicino a quello che succede nella vita reale».

Intervista a Elizabeth Strout

Quello che accade con la pandemia diventa anche un motivo per parlare di qualcosa di più grande: cosa succede all’umanità, cosa succede al mondo, cosa succede alla coppia.

«Esattamente. C’è il senso di isolamento, la rabbia e la tristezza per le persone scomparse, il senso della distanza. E c’è la coppia, lo stare insieme nonostante tutto. Lucy e William hanno una relazione che dura da tempo e non potevo non prendere in considerazione questo aspetto. Io stessa mi sono sorpresa del fatto che forse questo legame tra loro, anche se nei libri precedenti si erano separati, dovevo mantenerlo vivo. Perché è la verità: due persone a un certo punto della loro vita si conoscono così a fondo da condividere molte cose, belle e brutte. Così li ho fatti viaggiare insieme e scappare da New York per andare nel Maine lontano da tutti».

Intorno a Lucy e William compaiono altri personaggi già presenti nei suoi precedenti libri. Sembra che Elizabeth Strout si sia creata un suo mondo.

«Non è stata una cosa premeditata. È da Amy e Isabelle, il primo romanzo, uscito nel 1998, che ho cominciato a tornare più volte sulle stesse persone. Se ci penso col senno di poi, devo ammettere che i miei personaggi sono diventati reali per me. Li amo. E così mi capita di pensare: “Vediamo cosa sta succedendo a questi due che si sono incontrati tempo fa”».

Il passato e il futuro nei legami che durano

C’è tanta malinconia in questo romanzo. È per la situazione o è uno stato d’animo che ora le appartiene?

«È per la situazione. Lucy e William stanno invecchiando, sono spaventati dalla pandemia, c’è il passato di William, la sua crisi di coscienza riguardo alla sua eredità, le figlie che crescono, Lucy che è combattuta perché deve lasciarle andare. È la natura della storia a essere malinconica».

Quanto è importante il passato?

«Quello che c’è nella storia è il passato di Lucy, non il mio. Perché ho scritto dal suo punto di vista. La verità è che ho sempre lei in testa e poco tempo per pensare a me. Però è stato interessante anche per me tornare nel Maine, è un luogo che amo e mi piace vivere qui. Anche mio marito ha radici qui e ama starci, c’è la famiglia, ci sono gli amici».

Elizabeth è Lucy?

Lo sa, vero, che è difficile separare Lucy, che oltretutto è una scrittrice, da lei?

«Sì. Ma io non sono Lucy, non ho il suo background. Dopo la prima volta che l’ho creata ho subito pensato: “Oh no, ora la gente crederà che sono io”. Sono consapevole di questo e non posso farci nulla».

In Lucy davanti al mare c’è una frase che mi ha colpito: “Com’è essere te? È questo che mi ha spinto a diventare scrittrice: questo profondo e continuo desiderio di essere qualcun altro”.

«Questa sono io. Ho sentito questo desiderio da che ne ho memoria. Sono cresciuta nel Maine in una zona molto isolata, con poca gente intorno. Andavo in città con mamma e papà in macchina ed ero così eccitata nel guardare le persone. Mi ricordo ancora di una donna che stava camminando sul marciapiede e le domande che mi frullavano in testa: “Come sarà la sua casa? Come sarà la sua porta d’ingresso? E i dintorni?”. Avevo una curiosità vorace che non se n’è mai andata, anzi è cresciuta. Ogni volta che guardo una persona mi chiedo: “Chissà com’è essere lei”. Amo New York per questa ragione: puoi sederti in un vagone della metropolitana e vedere tante persone differenti e immaginarti le loro vite».

Si può dire che questo è anche un romanzo sulle seconde possibilità?

«Ho 68 anni e a questo punto della mia vita alle seconde possibilità io ci credo. Credo che tutto nella vita sia possibile. Può capitare ciò che non ti aspetti e più vado avanti con gli anni, più so che la vita ci riserva cose straordinarie».