Dopo 19 anni Sara Gama si ferma. Se attaccherà le scarpette (chiodate) al muro è ancora da capire, ma di sicuro non indosserà più la maglia della Nazionale femminile di calcio, né la guiderà come capitana. Lei che lo ha reso popolare, lei che è riuscita a ottenere un risultato storico, come la qualificazione ai Mondiali, nel 2019, lei che è diventata icona della grinta e della capacità delle donne di affermarsi anche in un terreno ancora dominato da uomini e stereotipi. L’ultima partita il 23 febbraio a Firenze contro l’Irlanda, in una gara valida per le qualificazioni al Mondiale 2024, dopo ben 140 presenze in azzurro.

Chi è Sara Gama

A quasi 35 anni, dunque, Sara Gama ha annunciato l’addio alla Nazionale, dopo esserne stata capitana. «È stato un viaggio straordinario che, iniziato quasi vent’anni fa dalle nazionali giovanili, è passato attraverso incredibili emozioni e grandi cambiamenti. Ho deciso di lasciare adesso, all’inizio di un nuovo ciclo nel quale ho dato il mio contributo per gettare solide fondamenta per il futuro e trasmettere i giusti valori a un gruppo che ha nuovamente dimostrato le sue grandi potenzialità» ha spiegato la triestina sui social. «Lascio qui, dove tutto è iniziato, passando dalla nostra Coverciano e da una città che gli appassionati sanno esser stata testimone d’importanti passi della nostra Nazionale».

L’addio alla Nazionale

Di padre congolese e madre triestina, Gama è nata proprio nella città giuliana, facendo il suo esordio nel mondo del calcio nelle giovanili della Polisportiva San Marco e al Graphistudio Tavagnacco, indossando per la prima volta la maglia la maglia della Nazionale Under 19 a soli 16 anni nel 2006. Nello stesso anno ha debuttato anche in nazionale maggiore, contro l’Ucraina. Con le azzurre ha partecipato a quattro Europei (2009, 2013, 2017 e 2022) e a un Mondiale (2019), contribuendo a far raggiungere i quarti di finale in entrambi i tornei.

Gama: «Ho usato corpo e mente»

Ora lei stessa ha affermato: «Ho usato il mio corpo e la mia mente per giocare. Li ho usati anche per parlare e cercare di ispirare, dentro e fuori dal campo. Questa consapevolezza e l’amore per questo gioco e questa maglia sarà quanto porterò con me». Con Sara Gama, dunque, il calcio femminile ha fatto passi da gigante. Come ha spiegato lei stessa, «sono le persone che fanno la differenza e noi ne abbiamo fatta tanta». È stato anche grazie a lei che il calcio femminile ha ottenuto il riconoscimento del professionismo nel 2022. «È un traguardo molto importante, a cui lei ha contribuito tanto, sia come parte dell’associazione calciatori, sia in campo. È una delle beniamine che ha permesso di raggiunge un risultato del genere, un vero baluardo», spiega Giada Morena, fondatrice di Calcio Femminile Italia, un blog che si occupa di questo sport, promuovendo l’empowerment femminile.

Dalla Barbie al calcio femminile professionistico

Sara Gama, dunque, è stata campionessa sul campo, ma anche fuori. Laureata in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Udine, parla quattro lingue (inglese, francese, spagnolo e italiano) ed è diventata un’icona anche per le bambine, quando Mattel ha deciso di dedicarle una Barbie per la sua «grinta in grado di ispirare ogni bambina a perseguire sempre i propri sogni». «Sicuramente il fatto di averla resa in qualche modo un “personaggio” è stato importante, così come l’aver realizzato una serie tv animata: entrambe le iniziative hanno contribuito molto a farla conoscere e amare, insieme alla sua presenza anche ad eventi del calcio maschile e ai dibattiti sul tema dello sport al femminile», conferma Morena, che a sua volta è appassionata di calcio e giovanissima.

La difficoltà di essere credibili per le donne del calcio

Giada Morena, oggi 19enne, ha deciso di aprire un blog, che poi è diventato anche un sito di informazione, Calcio Femminile Italia appunto, cinque anni fa, a 14 anni. Per lei è stato difficile affermarsi e acquisire credibilità. Oggi lavora anche per una società di calcio di serie C: «Per una ragazza e una donna è difficile anche solo parlare di calcio femminile, basta vedere i programmi tv. Ma è difficile anche per le calciatrici essere avvicinate con la stessa serietà: ricordo ancora quando Eleonora Goldoni (che milita nel Sassuolo, NdR) era stata invitata da Piero Chiambretti. Di lei furono mostrate le foto in costume da bagno invece che sul campo e questo la dice lunga sugli stereotipi che ancora resistono», spiega Morena.

Il calcio “rosa” e i pregiudizi

Se fuori dal campo resistono gli stereotipi, le allusioni alla vita privata non mancano e spesso sono quelle a ottenere l’attenzione e le prime pagine rispetto alle qualità tecniche delle calciatrici. Nel 2019, anno dei Mondiali, fece scalpore una dichiarazione di Alessandro Cecchi Paone. Intervenuto a La Zanzara a commentare i risultati della Nazionale, prima disse: «Per anni ho sostenuto il calcio femminile e l’ho difeso dai dirigenti federali che lo hanno attaccato dicendo che il calcio non era per le donne, lo spogliatoio e queste cose qui». Poi, però, aggiunse: «Le calciatrici lesbiche hanno un doppio problema (…). In una squadra almeno la metà sono lesbiche e ovviamente non lo dico in senso negativo. Le ho sempre protette. Sono lesbiche perché c’è una componente maschile in alcune donne lesbiche che trova sbocco in ambiti che una volta erano solo maschili».

Cosa manca ancora al calcio femminile

Se queste parole sollevarono la polemica, oggi sono ancora molti i traguardi da raggiungere: «Secondo più fondi, perché nonostante il riconoscimento del professionismo, per creare un campionato credibile occorrono pari diritti, pari coperture tv e stipendi più alti. Una sola partita a settimana visibile in tv non è sufficiente: è vero che oggi la si può vedere sulla Rai (prima su La7) e che Dazn ha da poco offerto qualche partita gratuita, ma non basta. Occorrono anche remunerazioni più alte per le calciatrici», spiega ancora Morena.

Perché all’estero è diverso

«Basta guardare la Spagna per capire che cambiare l’impostazione è possibile: lì, soprattutto col Barcellona, ogni partita della squadra femminile è sold out. Occorrono, però, investimento e un cambio di mentalità. Lo dimostra anche il caso statunitense: lì il calcio è uno sport praticato dalle ragazze che infatti ottengono migliori risultati rispetto ai colleghi uomini. È questione di “cultura” in senso ampio e di mentalità. Da noi qualcosa è cambiato e sta cambiando, ma occorre proseguire anche perché il calcio femminile è uno sport incredibile che consiglierei a tutte le bambine e ragazze, per l’emozione di giocare su un campo e per l’esperienza unica dello spogliatoio e del senso di squadra».