Francesca Pardini
Francesca Pardini (a destra) ritratta nel circuito automomobilistico Yas Marina di Abu Dhabi dal fotografo Stefano Guindani per il progetto #BG4SDG sull'Agenda Onu 2030

Francesca Pardini, pilota, insegna a guidare alle donne saudite

Da pilota, Francesca Pardini non ci pensava. Che guidare un’auto potesse essere simbolo di indipendenza ed emancipazione lo ha capito dopo, insegnandolo alle ragazze arabe. E ora partecipa a un doc sull’Agenda Onu 2030. Come promotrice della parità di genere

Francesca Pardini comincia parlando delle barzellette. Di tutti gli stereotipi, infatti, il più duro a morire è quello sulle donne al volante e lei, che al volante ha passato gran parte della vita, prima come pilota e poi come istruttrice, non si stupisce più di tanto. «Nella cultura di massa le auto sono sempre state viste come cose da uomini. Io sono figlia di un pilota, eppure perfino mia madre da bambina mi ha portata a danza classica e non sui kart. Per generazioni le ragazze sono cresciute pensando che non avrebbero mai guidato bene come i maschi e hanno finito per adeguarsi all’idea che le barzellette dicessero la verità».

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Francesca Pardini si è sempre sentita un pilota al pari degli uomini

Lei invece, per vocazione personale o Dna familiare (suo padre Guido è stato campione italiano di Formula 3) a quella storia non ha mai creduto e a 16 anni era già in pista. «Il giorno della mia prima gara papà mi ha detto: “Non pensare mai a te stessa come a una donna che corre in macchina: sei un pilota al pari degli altri”. Il mio approccio è stato questo e tutto quello che è arrivato dopo l’ho vissuto sempre come una vittoria personale, non come una conquista di genere». Che guidare un’auto potesse essere l’espressione di un diritto alla libertà e all’autodeterminazione non la sfiorava. Per capirlo, racconta, ha dovuto incontrare coloro alle quali quel diritto era stato negato. «Era il 2018 e in Arabia Saudita stava per cadere il divieto che per 28 anni ha proibito alle donne di mettersi al volante. Per l’occasione, Ford aveva deciso di portare anche lì un progetto di guida sicura già sperimentato in altri Paesi. Si chiamava “Driving skills for life”, si teneva alla Effat University, uno spazio privato, ed era dedicato alle ragazze. Io ai tempi lavoravo al Circuito Yas Marina di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, e siccome ero una delle poche istruttrici della zona, mi hanno proposto di partecipare. In dieci giorni sono arrivate oltre mille adesioni: nessuno immaginava un successo del genere». Da quel momento, Francesca ha continuato ad accompagnare le donne verso la libertà ritrovata.

In un doc e in mostra Francesca Pardini è simbolo dell’impegno per la parità di genere

A quell’impegno, diventato simbolo di un cambiamento epocale, il fotografo Stefano Guindani ha dedicato una delle tappe di Time to change – BG4SDG, il viaggio intorno al mondo sostenuto da Banca Generali per accendere i riflettori sui 17 obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo Sviluppo sostenibile, con una mostra e un documentario presentati a Venezia parallelamente alla Mostra del Cinema. La sua storia è stata scelta per il raccontare l’obiettivo numero 5 dell’Agenda Onu 2030: la parità di genere.

Che effetto le fa?

«Quando Stefano mi ha chiamata per propormi il progetto sono stata felice: è venuto da noi e abbiamo passato una giornata insieme. Far vedere al mondo queste donne è un messaggio importante».

Un’auto può diventare simbolo di libertà?

«La caduta del divieto di guida è stata un grande passo verso l’indipendenza delle donne saudite. Fino a quel momento tutte erano obbligate ad avere un uomo ad accompagnarle, che fosse il padre o un fratello o un autista. Persino io, quando andavo lì, prima del 2018 dovevo muovermi in taxi. Per quelle ragazze funzionava così, senza eccezioni: non potevano nemmeno portare i figli a scuola. Guidare, per loro, voleva dire essere finalmente libere. Sapesse quante lacrime di gioia ho visto versare quando si sono sedute al volante. Anche io, che sono un tipo poco sentimentale, confesso di essermi commossa».

Com’erano le sue allieve?

«Diversissime l’una dall’altra. Tante sapevano già guidare: avevano imparato nei parchi delle loro ville e c’era solo bisogno dell’ufficialità. Alcune avevano patenti prese all’estero e fuori dal Paese guidavano regolarmente. Altre, invece, partivano da zero: la differenza la faceva la famiglia da cui provenivano».

I corsi erano riservati solo alle ragazze?

«All’inizio sì, ma poi li abbiamo aperti anche ai maschi perché a quel punto si potevano avere classi miste. Abbiamo poi proposto eventi in pista che hanno avuto un buon successo. La cultura dell’auto è cresciuta tantissimo. Oggi ci sono anche pilote professioniste, come Reema Juffali, che ha fondato un suo team e gareggia nel campionato del mondo Gran Turismo. O grandi appassionate: il vicepresidente del Lamborghini Owners Club è una donna con i capelli colorati e una Lamborghini verde, bellissima. L’ho conosciuta a un evento Ferrari a cui l’avevano invitata sperando che comprasse un’auto».

Una donna araba alla guida di una Ferrari è una bella immagine, non trova?

«Sì, e neanche rara. Da quando è caduto il divieto di guida, le vendite di auto in Arabia Saudita sono quasi raddoppiate. E non parlo di utilitarie, ma di auto di lusso. Vale per tutto il mondo arabo. Anche ad Abu Dhabi tanti dei miei clienti Ferrari sono donne».

Come ci è finita a lavorare negli Emirati?

«Sono venuta ad Abu Dhabi come istruttore allo Yas Marina Circuit nel 2015. Pensavo di fare un’esperienza di un anno o due e invece sono ancora qui».

Da quando ha iniziato il mondo delle corse è cambiato molto

Lì, tra le altre cose, insegna a guidare le auto da corsa. Come reagiscono quando scoprono di dover prendere lezioni da una donna?

«Il mondo arabo sta cambiando a una velocità incredibile. L’immagine che arriva a noi europei della vita delle donne di qui non sempre corrisponde alla realtà, almeno per quello che riguarda gli Emirati Arabi. Se dopo 8 anni sono ancora qui, è perché posso lavorare bene: mi conoscono tutti e mi apprezzano. Quelli che più si stupiscono nel vedere una donna sono i turisti. Poi leggono su Internet il mio curriculum e si rilassano».

Una donna che corre in macchina e fa da istruttrice anche ai maschi è comunque un bel calcio agli stereotipi, ammetterà.

«Anche il mondo delle corse è cambiato molto. Io ho iniziato a 16 anni, senza aver fatto esperienza sui kart e alla prima gara ho preso un sacco di bastonate. Poi però sono cresciuta e nel 2001 ho vinto il Campionato italiano prototipi. A quei tempi di donne ce n’erano poche, oggi fortunatamente con la Formula W e la Formula 1 Academy la presenza femminile è cresciuta molto. Non solo tra i piloti: ci sono tante ragazze anche tra gli ingegneri e tra i meccanici. Pensare a una carriera nelle corse per una donna oggi non è più tabù».

Alle ragazze saudite ci pensa ancora?

«Certo. Voglio, tornare lì e proporre non più corsi base ma un approccio alla guida in pista. È arrivato il momento di sognare in grande».

A Venezia il progetto di Stefano Guindani sull’Agenda Onu 2030

Sconfiggere la povertà e la fame. Promuovere la salute e il benessere. Garantire a tutti acqua pulita, lavoro dignitoso, pace e giustizia. Diffondere la parità di genere. Lottare contro il cambiamento climatico… Ogni punto, una storia che illustri la strada difficile ma possibile degli obiettivi dell’Agenda Onu 2030. Stefano Guindani fotografo, autore e anima del progetto #BG4SDG, spiega così il suo viaggio intorno al mondo per illustrare i 17 obiettivi dell’Agenda Onu 2030, promosso da Banca Generali e raccontato – con la voce di Rocío Muños Morales – nel documentario Time to Change: «L’idea è nata prima del Covid, doveva durare 17 mesi. Poi la pandemia ha rallentato tutto». Il lavoro di selezione è stato grandissimo: «Non volevamo usare immagini scioccanti e neppure ambiti di investimento della banca o casi già troppo raccontati». Di ogni punto si mostra un aspetto di denuncia e, dove possibile, una soluzione. Le tappe di questo gioco a incastri vanno da Ciudad del Guatemala a Hong Kong, passando per l’India, gli Stati Uniti, l’Europa, l’Africa. Al termine del viaggio «la speranza che questi obiettivi si possano raggiungere è grande, anche se la preoccupazione esiste: soprattutto vedere che tanti aspettano che la soluzione arrivi da fuori, non dai gesti responsabili della loro vita». Il docufilm Time to Change, diretto da Emanuele Imbucci per Cannizzo Produzioni, verrà presentato in anteprima il 5 settembre a Venezia, parallelamente alla Mostra del Cinema, e poi andrà in onda sulla Rai. Le foto di Stefano Guindani saranno esposte in mostra al Forum Ambrosetti a Cernobbio (Co) dall’1 al 3 settembre e poi dal 6 al 28 settembre alla Casa della fondazione The Human Safety Net di Venezia.

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