L’ultimo femminicidio che ha scioccato l’Italia è quello di Martina Carbonaro, la giovane di 14 anni uccisa da Alessio Tucci a colpi di pietra. Ha confessato il femminicidio perché lei lo voleva lasciare. Un caso da non trattare come “colpo di testa” o “sfogo di rabbia”, ma come l’esempio di una violenza sistemica di cui gli uomini, sempre più giovani, si rendono colpevoli. Sempre di più.

La violenza in realtà permea la società a tutti i livelli. Aumentano le risse tra giovanissimi e la violenza in generale, che ha come vittime quelli che sono visti come “deboli”: ragazze o coetanei oggetto di bullismo o da cyberbullismo. Lo conferma il recente Rapporto ESPAD Italia del Cnr-Ifc di Pisa, da cui emerge un preoccupante ritorno della violenza giovanile in Italia. La cronaca lo conferma, anche se i delitti efferati sono avvenuti pure nel passato: dal caso di Novi ligure, con protagonisti i “fidanzatini” Erika e Omar che nel 2001 uccisero la madre e il fratellino di lei, fino al femminicidio di Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta. Episodi non così isolati che spingono a chiedersi cosa porti adolescenti e ragazzi a compiere delitti così efferati.

Storie di giovani violenti

A descrivere chi sono gli adolescenti e i giovani “assassini” ora ci prova (riuscendoci molto bene) Leonardo Abazia, psicologo giuridico e poi giudice, che ha dedicato tutta la vita al fenomeno della devianza minorile. «Colpito e scosso – durante un evento accaduto a inizio carriera – dagli occhi dei bambini che non hanno mai conosciuto il bene», come lui stesso spiega, Abazia ha ora messo per iscritto le sue analisi in un libro molto crudo, ma anche altrettanto chiarificatore: NOI UCCIDIAMO. Storie di adolescenti assassini (Franco Angeli).

Il labirinto umano dei giovani violenti

Abazia spiega come il crimine per i giovani autori di reati violenti sia visto «come alternativa disperata – e disperante – a tutte le parole che l’adolescente non è in grado di rivolgere al mondo». Quello percorso dall’esperto è un viaggio in un vero e proprio labirinto della mente umana, che però tenta anche di dare risposte concrete: di chi è la responsabilità? Che ruolo hanno scuola, famiglia e amici? Ma soprattutto, chi sono gli adolescenti assassini?

Giovani violenti: chi sono?

Abazia, intanto, chiarisce fin dalla prefazione chi sono i giovani di cui scrive: li chiama i «perduti senza collare, che ho accompagnato nella mia vita professionale». Una vita professionale di 30 anni. «Mi sono ispirato a una definizione di un autore francese che in un romanzo descriveva i giovani allo sbando nel dopoguerra. Ho trovato similitudini con i ragazzi senza genitori o comunque lasciati soli, con i quali lavoravo a Napoli, sia presso la Asl, sia come consulente del ministero della Giustizia negli istituti penali per minori». Oggi Abazia è giudice onorario presso il Tribunale dei minori e mette in guardia da alcune definizioni con le quali sono etichettati i giovani che commettono reati.

I giovani violenti non sono mostri

Gli adolescenti, anche quelli che arrivano a commettere omicidi, non sono infatti mostri, come spesso ci si affretta a chiamarli: «Sono ragazzi devianti, accomunati dal fatto di non percepire l’altro in quanto tale, ma come un soggetto da prevaricare per affermare se stessi – spiega il giudice – Anche per coloro che hanno psicopatologie che li spingono a determinati comportamenti, l’omicidio avviene quasi come un “accidente”, come un atto che avviene quando la vittima viene vista come un oggetto, un ostacolo alla propria affermazione personale o come “qualcosa” che mette in dubbio la loro identità: succede quando l’altro gli pesta un piede, per esempio, gli sporca la scarpa e questo viene vissuto come una mancanza di rispetto, specie se avviene davanti agli altri». Se questo meccanismo è alla base di molte risse anche violente, che degenerano fino al ricorso alle armi – coltelli o persino pistole – diverso è il contesto se le vittime sono donne».

Quando la violenza diventa femminicidio

Giulia Cecchettin, Sara Campanella, Ilaria Sula sono solo alcune delle giovani vittime di femminicidio, protagoniste loro malgrado della cronaca recente, uccise da fidanzati altrettanto giovani che spesso non accettavano il rifiuto. «Va premesso che, se si parla di adolescenti, i ragazzi vittime di omicidi sono maggiori del 20-30% rispetto alle ragazze. Ma ci sono aspetti che vanno sottolineati. Per esempio, i giovani maschi sono uccisi soprattutto da coetanei che non conoscono, ma dai quali si sentono minacciati nella loro identità di leader, dietro la quale comunque si nasconde spesso una fragilità. Le ragazze, invece, hanno un rapporto affettivo con il loro carnefice, che non accetta la fine della relazione o un loro rifiuto. Si tratta di una dinamica tipica di una società patriarcale come la nostra, dice Abazia.

Il retaggio del patriarcato

«Viviamo ancora in una società patriarcale. La donna è vista come soggetto debole e da prevaricare, non solo dai giovani, ma anche dagli adulti e persone dalle donne stesse – conferma l’esperto Abazia –. In questo contesto si inseriscono spesso meccanismi di difesa molto arcaici messi in atto da giovani che arrivano a commettere reati anche molto gravi e brutali, come gli omicidi». Come spiega il giudice, «alla base c’è l’incapacità di sopportare una situazione frustrante, come appunto un rifiuto o una mancanza di rispetto. Rispetto al passato oggi manca un processo di mentalizzazione, di elaborazione e comprensione profonda, legato anche ai cambiamenti nell’educazione».

Dalla famiglia “morale” alla “troppo affettiva”

«Il reato brutale, quando commesso da un adolescente, è certamente un fallimento del sistema familiare, ma anche educativo e sociale», si legge nella prefazione al libro e Abazia spiega: «Lungi dal colpevolizzare madri e padri, è indubbio che oggi è diminuita la funzione “morale” della famiglia, quella che prevede di imporre dei “no”, che invece sono necessari per educare all’attesa e al rifiuto: sono quelli che, fin da bambini, insegnano a sopportare la mancata soddisfazione di un bisogno immediato. Oggi, invece, i genitori non solo vengono incontro alle richieste subito, ma spesso le anticipano con il risultato che il giovane non impara poi a gestire la frustrazione del limite quando lo incontra nel corso della vita».

Il ruolo del web

«Un esempio è la gestione dei cellulari, fin da bambini: i genitori non impongono regole nell’accesso agli smartphone né al web, che oltretutto è pieno di contenuti pornografici: si stima tra il 60 e il 65%. È chiaro che un giovane che utilizza molto la rete, senza limiti, recepisce un modello di sessualità molto volgare, spesso violento, dove l’immagine della donna è quella di un oggetto,.Modello che poi replicano nella realtà – spiega ancora Abazia – Al tribunale dei minori abbiamo visto molti casi di adolescenti che si filmano durante i rapporti sessuali, per poi postare questi video senza rendersi conto dei danni a cui vanno incontro loro e chi viene filmato con loro».

La rete è una nuova agenzia socializzante

È indubbio che una parte sempre maggiore della vita degli adolescenti sia vissuta online. «Prima le agenzie socializzanti erano famiglia, parrocchia, scout o la compagnia dei coetanei in piazza. Oggi ha preso il sopravvento il web: i ragazzi sono connessi nel gruppo chat della scuola, del calcetto, del gioco online, ecc. Non possiamo e non dobbiamo demonizzare la tecnologia, ma occorre prendere coscienza di questo cambiamento e offrire un’educazione digitale. È quanto facciamo, per esempio, con la messa in prova dei giovani che commettono reati: gli si sospende la pena, ma gli si offrono percorsi formativi che possono prevedere attività di volontariato o percorsi di educazione digitale o affettiva».

L’importanza dell’educazione affettiva e digitale

Per Abazia l’educazione, sia familiare che scolastica, deve prevedere questo passaggio: «La scuola stessa dovrebbe riappropriarsi del proprio ruolo educativo perché non ha la sola funzione di trasmettere conoscenze. È chiaro che non è facile, soprattutto in una società nella quale l’autorevolezza degli insegnanti a volte è messa in discussione dalle famiglie stesse: il rischio, infatti, è di confrontarsi o scontrarsi con contesti familiari a loro volta aggressivi, che deridono l’autorità di riferimento e dunque alimentano modelli violenti».