C’è un momento della giornata, quando le mie figlie sono appena andate a scuola e la casa improvvisamente tace, che mi coglie alla sprovvista. Non ho nulla da fare per almeno un’ora: nessuna chiamata urgente, nessuna mail a cui rispondere, nessuno che mi chieda di cercare calzini spaiati o spiegare perché non ci sono più i dinosauri. Un tempo prezioso, direbbe chiunque. Eppure mi ritrovo in piedi, a girare per casa con il telefono in mano, distratta. Lo prendo, lo sblocco, lo scorro senza meta. Lo appoggio. Lo riprendo dopo pochi secondi. Come se quel silenzio fosse troppo. Mi dico che dovrei approfittarne. Leggere. Fare colazione con calma. Pensare, semplicemente. Senza obiettivi, senza scroll, senza sottofondo. Invece fatico.

Il calo dell’attenzione: una questione di numeri

Lo diceva già il filosofo Blaise Pascal, secoli fa: «Tutti i mali degli uomini derivano dal non saper restare tranquilli in una stanza». Aveva ragione. E oggi quella stanza ha pareti invisibili fatte di notifiche, contenuti, post, video, podcast, messaggi. Una macchina perfetta per tenerci svegli, iperconnessi, sempre più lontani da noi stessi. Insomma, per distrarci. E non è un’impressione, i numeri lo confermano. Secondo alcuni studi di Apple, un utente medio sblocca il telefono circa 80 volte al giorno. Significa quasi 30.000 volte in un anno. E anche quando lavoriamo, quando dovremmo essere “sul pezzo”, la concentrazione dura sempre meno. Lo ha misurato Gloria Mark, docente all’Università della California e voce autorevole nello studio dell’attenzione digitale: 10 anni fa resistevamo circa 3 minuti su un compito prima di distrarci; oggi ci fermiamo a 40 secondi. Poi arriva la notifica, il pollice che scivola sullo schermo. E, ogni volta che ci distraiamo, ci vogliono in media 25 minuti per ritrovare il filo.

40 sono i secondi di attenzione che dedichiamo a un compito prima di distrarci

Come i contenuti digitali ci riscrivono il cervello

Una fatica che non si vede, ma si accumula. «È il risultato di un cambiamento profondo nel modo in cui i contenuti vengono creati e distribuiti» spiega Diego Ceccobelli, professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi di Milano. «Siamo passati da un’epoca in cui i messaggi erano pensati per tutti a una in cui tutto è progettato per ciascuno. Un tempo eravamo un’audience di massa, oggi siamo un mosaico di micro-pubblici, ognuno con i propri gusti, le proprie abitudini, le proprie ossessioni. E per intercettare la nostra attenzione servono milioni di contenuti diversi, sempre più brevi, sempre più su misura».

Ma questa iper-personalizzazione tende a chiuderci dentro una “filter bubble”, uno spazio digitale ritagliato sulle nostre preferenze, dove vediamo solo ciò che ci conferma, ci somiglia, ci compiace

Economia dell’attenzione: il nuovo capitalismo

Un meccanismo che ci rassicura, perché parla la lingua dei nostri gusti, ma che riempie ogni spazio di rumore, ogni attesa di qualcosa da guardare, ogni silenzio di una distrazione. «È il cuore dell’economia dell’attenzione: un sistema a misura di capitali e non di uomini, che trasforma il nostro tempo e la nostra concentrazione in merce. Dove ogni clic, ogni scroll, ogni pausa riempita è un dato, un profitto» continua Ceccobelli. E intanto la nostra capacità di attenzione cala, si adatta, quasi senza che ce ne accorgiamo. Si abitua a contenuti sempre più numerosi, a storie che scorrono veloci, a scene che cambiano in pochi secondi. «Basta pensare alle serie tv e alla rapidità con cui accadono i fatti. Se i ragazzi di oggi guardano, per esempio, il film Mediterraneo, il capolavoro di Gabriele Salvatores, dicono che è troppo lento» dice Vincenzo Russo, professore ordinario di Psicologia dei consumi e neuromarketing alla IULM di Milano e coordinatore del Centro di ricerca di Neuromarketing “Behavior and Brain Lab” di IULM.

Un tempo si diceva che servivano almeno 6 secondi per imprimere un brand nella memoria, mentre oggi tutto sembra cominciare molto prima: gli studi più recenti rilevano che già entro il primo secondo il nostro cervello inizia i processi cognitivi e mnemonici

Un cervello antico in un mondo veloce

Mentre fuori tutto accelera, però, dentro di noi qualcosa resta immobile. Come se, sotto la superficie delle notifiche e dei video che scorrono in loop, abitasse ancora un essere antico, fatto di impulsi, emozioni, istinti. «È proprio così. Se da un lato il nostro cervello, in quanto plastico, si sta attrezzando a seguire questo ritmo sempre più serrato, dall’altro resta ancorato a una struttura profonda che parla un linguaggio molto più antico, quasi primordiale. Per capire come rispondiamo agli stimoli che ci circondano, dobbiamo guardare dentro: lì, nel cuore della nostra mente, convivono due parti distinte. Una è quella razionale, lenta e consapevole, che abita la corteccia cerebrale: pensa, analizza, decide. L’altra è più profonda, più antica, ed è la prima a rispondere. È il sistema limbico, il cuore emotivo del nostro cervello, che in 180.000 anni di evoluzione non è mai cambiato, e che si attiva in pochi millisecondi davanti a uno stimolo, guidandoci prima ancora che la mente razionale abbia avuto il tempo di intervenire. Il neurologo Antonio Damasio, in L’errore di Cartesio, lo ha scritto con chiarezza: “Non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma macchine emotive che pensano”» argomenta Russo.

Calo dell’attenzione e perdita della noia produttiva

È qui che nasce l’attenzione immediata, quella che il capitalismo digitale ha imparato a intercettare e sfruttare. Un sistema efficiente, ma anche piuttosto fragile: più è esposto a stimoli rapidi, più fatica a sostare, ad approfondire, a tollerare la noia. Nel 2014, alcuni psicologi dell’Università della Virginia e di Harvard hanno messo alla prova questa nostra incapacità: hanno chiesto a un gruppo di persone di restare sedute da sole in una stanza, senza fare nulla, per un tempo variabile tra i 6 e i 15 minuti. Nessun telefono, nessun libro, nessuna distrazione. Solo tempo e silenzio. La maggior parte di loro ha trovato l’esperienza intollerabile. L’ha odiata. Ma davvero è solo colpa degli schermi, dei social, dell’infinità di contenuti a disposizione? «Dire che siamo travolti dall’offerta infinita è una scusa comoda» specifica Diego Ceccobelli. «La verità è che non ci concediamo di oziare perché viviamo in una società che ci vuole sempre attivi, presenti, produttivi, disponibili. Non sappiamo più considerare il vuoto come un tempo legittimo. Se non fai, non sei». A questa lettura sociale se ne affianca una psicologica. «La noia non è solo assenza di stimoli» ci spiega Vincenzo Russo. «È presenza di sé. Restare senza distrazioni significa confrontarsi con le proprie emozioni e la propria identità, senza filtri. Ma non siamo più abituati a farlo. Ci manca l’allenamento». E forse, aggiungiamo noi, anche il coraggio.

Uscire dalla trappola: soluzioni concrete per invertire il calo dell’attenzione

In un mondo che corre senza sosta, dove ogni notifica è un richiamo e ogni scroll una promessa di novità, ci troviamo a chiederci: e se la vera rivoluzione non fosse spegnere tutto, ma imparare a restare connessi senza esserne travolti? «Possiamo iniziare a prendere in giro gli algoritmi» suggerisce il sociologo Diego Ceccobelli «Cercare contenuti che non ci interessano, cliccare su argomenti inattesi, uscire dai sentieri tracciati per noi. Soprattutto, però, dobbiamo smettere di temere la tecnologia. È fondamentale che tutti, non solo i giovani, imparino a conoscerla per far sì che non sia più un’ombra da cui difendersi, ma uno strumento da padroneggiare». Questa, però, è solo metà della sfida. L’altra metà riguarda ciò che accade dentro di noi. «Il nostro cervello non è stupido, ma prevedibilmente irrazionale» conclude lo psicologo Vincenzo Russo.

Sapere come la nostra mente reagisce agli stimoli e riconoscere i bias cognitivi è il primo passo per non diventare vittime dei meccanismi invisibili delle piattaforme e della Rete

Contro il calo dell’attenzione, tornare presenti

Qualche giorno fa, in quella casa silenziosa, ho provato a resistere. Il telefono l’ho lasciato sul tavolo, lo schermo in giù. Ho fatto fatica, come sempre. Ma poi, lentamente, è arrivato qualcosa che somigliava al vuoto. Non era inquietante. Era pieno. Di pensieri, ricordi, idee. Un tempo inutile, eppure necessario. E bellissimo. Aveva ragione il filosofo Michel de Montaigne: «Pensare ad altro alimenta la speranza». Ora ne abbiamo bisogno.