Madre e figlia

Ripensiamo la convivenza forzata con i nostri figli

Poca autonomia, troppo affetto, nessuna responsabilità. Nelle famiglie di oggi è difficile diventare adulti. Lo sostiene una psicoanalista che ai genitori dei ragazzi in Dad consiglia: «Chiedete loro di caricare ogni giorno la lavastoviglie»

Paolo passa la giornata in pigiama, un occhio alla Dad e uno al cellulare. Francesco studia anche all’ora di cena, incapace di dire ai prof che lo stanno caricando troppo. E la madre di Anna è in pena: sua figlia non esce quasi mai e cerca di continuo notizie sul virus. Quanti ne vediamo di ragazzi così, adolescenti in affanno, azzerati dall’ansia, dalle restrizioni e dai divieti? Colpa della Dad e di una politica sorda, accusano molti genitori.

«Magari fosse solo così. Le ragioni del disagio si annidano proprio dove questi ragazzi vedono scorrere le loro vite, in famiglia» ribatte subito Laura Pigozzi, psicoanalista e autrice del saggio pubblicato da Rizzoli Troppa famiglia fa male. Come la dipendenza materna crea adulti bambini (e pessimi cittadini), un libro doloroso da leggere proprio ora, mentre la convivenza forzata stringe ancora di più i lacci emotivi e fisici con questi ragazzi. «Non sono strutturati per reggere l’urto di ciò che sta accadendo» continua la psicoanalista. «Sono figli di un modello che non li ha allenati al limite, alla frustrazione, alla sacrosanta dialettica tra ciò che si vuole e ciò che si può fare. I genitori li hanno protetti e basta, convinti di poter risolvere i problemi al posto loro. Ma questo oltre che impossibile, è profondamente sbagliato».

Ma non si può negare che la pandemia abbia imposto ai ragazzi sacrifici inimmaginabili.
«Certo. Subiscono privazioni enormi per la loro età. Vivono senza baci e abbracci, mi raccontano di storie d’amore sfaldate, viaggi con i compagni di liceo andati in fumo. Il loro mondo è caduto, ma al posto di reagire restano chiusi con mamma e papà, al sicuro».

Facciamo un passo indietro, dov’è che noi adulti abbiamo sbagliato? «Abbiamo impostato la loro crescita sul “ti difendo io”, non sul “ti preparo alla vita”. Siamo stati ciechi perché non abbiamo avuto una visione del futuro. Persino il concetto di impegno è stato distorto: studiare serve per avere buone performance su un palcoscenico, non per costruirsi un avvenire, così se gli studenti portano buoni voti è per fare contenti mamma e papà. Allo stesso tempo li abbiamo abituati alla nostra onnipresenza, a non avere spazi privati. Pensiamo al telefono dove spiamo la loro vita privata, al registro elettronico, all’abitudine a raccontarsi qualsiasi cosa in famiglia: tutto questo li lascia per sempre bambini».

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Eppure fino all’anno scorso questa generazione viveva tra mille attività e impegni.
«Ma non è così che si cresce! Le attività di cui mi parla sono state scritte e definite a tavolino da noi adulti con una serrata supervisione. Non solo, li abbiamo accontentati in tutto impedendo ogni trasgressione e azzerando la loro naturale aggressività. Il progresso dell’umanità si basa sul fatto che una generazione si contrapponga alla precedente. Se non combatto mio padre o mia madre, non mi realizzo, vivrò per sempre nella sua ombra. I nostri figli stanno facendo questo, si adattano a noi, si mimetizzano, protetti nelle culle che abbiamo preparato per loro. Ed è questo che deve preoccupare. Anche perché se non hanno un conflitto con noi, prima o poi lo cercheranno facendo del male a loro stessi».

D’accordo, però adesso è la Dad a chiuderli in casa davanti ai pc. E in questo i genitori non c’entrano.
«Ma molti di loro erano già chiusi in casa prima di questa pandemia, preferivano le relazioni virtuali. Quanti andavano a fare i compiti dagli amici? Quelli che incontravo io mi dicevano: “È una perdita di tempo”, non capendo che non farlo era una perdita di vita».

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Oggi come si possono cambiare le cose?
«Se i ragazzi sono a casa devono collaborare, Dad o non Dad, perché la pandemia è un problema di tutta la famiglia e ciascuno deve fare la propria parte. Sbagliamo se non diamo loro delle responsabilità. Vedo genitori trattarli come degli intoccabili che non possono essere distratti dallo studio, e nel contempo spiare ancora di più le loro vite, entrando persino nelle lezioni online: quante madri e padri lo fanno?».

E invece?
«Possiamo recuperare l’educazione che non c’è stata. La famiglia è il primo gruppo sociale che i nostri figli incontrano, è qui che imparano a comportarsi con l’esterno. Amarli è insegnare loro a contribuire come faranno nella vita vera: chiediamogli di caricare la lavastoviglie, sparecchiare, cucinare, fare la spesa. Sì, mandiamoli anche fuori casa. Spieghiamo loro che sappiamo cosa stanno passando, ma che anche noi siamo in difficoltà con lo smart working e i tanti problemi creati dalla pandemia. Noi per primi, però, dobbiamo dirglielo in modo nuovo, pensando di parlare a un adulto, un cittadino del mondo. Se si sentiranno coinvolti e investiti di questa responsabilità non caricheranno la lavatrice come un bimbo che fa un favore alla mamma, ma perché hanno capito di avere un ruolo all’interno del gruppo».


Molti ragazzi erano già chiusi in casa prima della pandemia e consideravano andare a fare i compiti dagli amici una perdita di tempo


 

Lei nel suo libro parla spesso del mantenere la giusta distanza dai figli ma come ci si può riuscire concretamente in questo periodo così difficile?
«È giusto preoccuparsi, ma senza schiacciarli. Se si sospetta che il figlio non segua la Dad, non è necessario entrare in stanza durante la lezione. Anzi, le dirò di più: è vietatissimo. Basta dare uno sguardo ogni due o tre giorni al registro elettronico, per capire come va. E poi, impariamo a bussare alla porta della loro stanza, non invadiamo i loro luoghi, l’appropriazione del proprio spazio è fondamentale per la crescita».

Siamo arrivati alla fine della nostra intervista. Ci dica da dove possiamo cominciare oggi stesso.
«Se in casa non abbiamo ancora messo dei paletti, iniziamo subito: la lezione si fa vestiti, smartphone e videogiochi hanno orari limitati e a pranzo e a cena ci si vede a orari stabiliti. Se i ragazzi si lasciano andare, non c’è nulla di sbagliato nel parlare loro e spiegare che vogliamo aiutarli dando dei limiti. Probabilmente cercheranno di trasgredire, se devono usare lo smartphone per due ore proveranno a tenerlo acceso un’ora in più, ma lo faranno di nascosto, sapendo che, una volta scoperti, questo avrà delle conseguenze. Crescere è proprio questo».

DOVE SI PUÒ CHIEDERE AIUTO

Lucy, la helpline dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, è rivolta a bambini e adolescenti, (ma anche genitori) per affrontare situazioni di isolamento sociale, irritabilità, tristezza, difficoltà a dormire e a gestire l’ansia. Rispondono 7 giorni su 7 allo 0668592265.

• La Fondazione Soleterre ha attivato in tutta Italia un servizio di assistenza psicologica ai cittadini, con un team dedicato ai minori. Chiamando il numero 3357711805 si può fissare un appuntamento gratuito online o in presenza in 14 Regioni.

• La linea di ascolto e consulenza del Telefono Azzurro (tel 19696), offre assistenza con uno spazio di ascolto per bambini e adolescenti e consulenza psicopedagogica per gli adulti.

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