Dal profilo Instagram di Canadian's Women Foundation
Dal profilo Instagram di Canadian's Women Foundation

Il gesto per chiedere aiuto fa discutere

I centri antiviolenza e gli avvocati invitano a non condividere il video "Signal for Help" diventato virale. La tentazione è forte, ma occorre valutare il contesto in cui questo segnale è nato. L'Italia non è ancora pronta: occorre un protocollo condiviso ma - diciamo noi - anche un campagna che spieghi cosa fare se si assiste a una violenza

Il video della donna alla finestra che abbiamo ricevuto tutti su Whatsapp in questi giorni è già finito su Tik Tok, trasformato in meme. Segno che qualsiasi cosa transiti sui social, finisce per diventare qualcos’altro, in una metamorfosi di cui alla fine si perde l’origine. Ma anche il senso.

L’origine del video

L’origine è questa: durante il primo lockdown del 2020, la Canadian Women’s Foundation – una fondazione canadese femminista che lavora contro la violenza domestica e di genere – ha lanciato “Signal For Help”, un gesto che può aiutare a comunicare silenziosamente quando si ha bisogno di supporto. Il segnale può essere fatto durante una videochiamata o quando ad esempio si apre la porta di casa per ricevere un pacco. 

Questo è il video che già era stato diffuso nel 2020, e ora è tornato virale grazie all’associazione Gengle Onlus.

E il senso – quello vero – è questo: “Signal for help”, il segno della mano dinamico, è stato pensato dalla Canadian Women’s Foundation con uno scopo preciso, come segnala in una nota la rete D.I.R.E, che raduna più di 80 Centri antiviolenza in Italia: segnalare una situazione di violenza domestica durante una video chiamata o una video conferenza. Il segno appunto presuppone che la persona che lo vede conosca la donna che lo fa e sia quindi in grado di fornire informazioni precise, sia se si rivolge a un centro antiviolenza che alle forze dell’ordine. «È comprensibile il desiderio di attivarsi per contribuire a fermare la violenza maschile contro le donne, ma l’improvvisazione è sempre pericolosa» dichiara Antonella Veltri, presidente D.i.Re. «Per questo chiediamo di non delegare la soluzione a uno stratagemma. Servono interventi di sistema: un maggior sostegno economico alle organizzazioni di donne che agiscono contro la violenza, il coinvolgimento nella Cabina di regia e ai tavoli per la programmazione politica, l’attuazione puntuale e continuativa delle disposizioni della Convenzione di Istanbul, la risposta ai richiami dell’Europa per quanto riguarda la mancata messa in pratica delle misure di prevenzione. Se vogliamo usare #signalforhelp comunichiamolo e usiamolo correttamente».

In Italia manca un codice ufficiale

In italia non esiste un codice di auto-mutuo-aiuto contro la violenza domestica, ma non si può prendere a prestito questo senza creargli una struttura intorno. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti ne è stato messo a punto uno contro le molestie nei bar: per segnalare un pericolo al personale, basta chiedere se Angela è presente (la campagna si chiama “Ask For Angela”). In Francia, dal 2015, è possibile disegnare un punto nero sul palmo della mano, mentre in Belgio e in Spagna, durante la pandemia, è stato creato un codice per chiedere sostegno in farmacia: basta chiedere una “mascherina 19” (in spagnolo “mascarilla 19”, in francese “masque 19”). Tutti questi segnali in codice attivano una serie di procedure riconosciute. In Italia sembra ci venga più facile attivare il codice dell’ironia sui social, come se sulla violenza ci fosse da ridere. Ciò che funziona nel concreto, invece, è la rete dei Centri anti violenza. Contro l’improvvisazione e la superficialità dei social network, nel nostro Paese, che vanta leggi a tutela delle donna maltrattate tra le più avanzate al mondo, si punta su competenza e preparazione.

I rischi di usare un codice non riconosciuto

Eppure la tentazione di divulgare il video è forte. Ma combattere l’indifferenza è un’altra cosa. «Occorre dare ascolto alle donne ma non in questo modo così superficiale e passibile di equivoci». L’avvocatessa Anna Di Mauro,  presidente dell’Associazione Donne Giuriste Italia Sezione di Caserta, ci fa riflettere a partire dal gesto: «È un segnale che, così simile a un saluto, si può facilmente equivocare. Cosa succederebbe se si segnalasse, anche in buona fede, una violenza inesistente? Il rischio di errore e false denunce è molto alto. Il segnale insomma potrebbe gettare ombre sulle persone: da chi parte? Come verificarne la veridicità? L’Italia non è ancora culturalmente preparata, questi messaggi diventerebbero subito preda di mitomani. Per non parlare poi di chi vuole intenzionalmente calunniare qualcuno, strumentalizzando magari una violenza che non esiste. Sono frequenti, per esempio, le false denunce contro uomini per sottrarre loro i figli». Un fenomeno, questo, da cui però prende le distanze l’avvocatessa Manuela Ulivi, presidente del Cadmi (Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano) e coordinatrice delle avvocate di D.I.R.E. «Purtroppo si assiste al fenomeno opposto, cioè uomini che procurano false denunce contro le donne: succede quando un procedimento in cui le donne denunciano si arena prima di arrivare al dibattimento, perché la donna non è ritenuta attendibile o mancano i testimoni. E a questo punto gli uomini si accaniscono sui figli per “punire” le mogli. Ovvio che in questo clima le donne denuncino sempre meno».

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Comunque, anche se ci si trovasse di fronte a una violenza, denunciare al posto della donna vuol dire esporla ancora di più. «Insomma, il segnale dovrebbe essere veicolato bene, cioè supportato da un protocollo che lo riconosca come strumento valido di denuncia, tale da giustificare l’intervento delle forze dell’orine e quindi l’attivazione del Codice Rosso» aggiunge l’avvocatessa Di Mauro.

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Più che il segnale da imparare, contano i segnali della violenza

Più che imparare il segnale dobbiamo riconoscere i segnali della violenza. «La maggior parte è psicologica ed economica, quella plateale evidenziata dal video è una minima parte e, in ogni caso, difficilmente sfocia in una denuncia. Molte donne non riconoscono neanche di vivere in un contesto di violenza». Ancora insomma prevale una narrazione convenzionale della violenza di genere, la visione per cui nell’ambito della coppia sia un impulso predatorio improvviso di un uomo, ma non è mai così: è un’escalation. 

Occorre sapere come rispondere a una richiesta di aiuto

Se questo video virale ha un merito, è comunque quello di catturare una volta in più l’attenzione sulla violenza contro le donne. «Non è sbagliata l’idea del segnale, ci si può lavorare anche da noi ma la nostra geografia è diversa dal Canada. Come far rintracciare la donna? Come spiegare dove si trova? Per questo stiamo studiando delle App» dice Manuela Ulivi. E poi, perché non far partire una campagna di supporto che spieghi chiaramente cosa fare in caso si capti una richiesta di aiuto? Cogliamo questa opportunità. Il 1522 e il 112 stanno cominciando a dare risultati, le chiamate sono in aumento. «Vero è che questi, poi, indirizzano le donne al centro anti violenza più vicino, e non è scontato che questo sia facile da raggiungere. Occorre insomma rafforzare la rete sul territorio per essere più vicini alle donne» conclude Manuela Ulivi. In ogni caso, a questi numeri si ricevono indicazioni da persone che hanno l’esperienza e la formazione più completa per occuparsene. E qui si trovano i centri e le associazioni anti violenza in tutta Italia.

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