Questa foto racconta la storia dolorosa di Verdiana, una donna con disabilità, e sua mamma Pasquina

Questa foto racconta la storia dolorosa di Verdiana, una donna con disabilità, e sua mamma Pasquina. Fa parte del progetto Vivere con un disabile di Donna Moderna, in collaborazione con la Lega del Filo d'oro e con le foto autoriali di Settimio Benedusi

Una mamma tenta di uccidere il figlio disabile: cosa rischia?

Una mamma tenta di uccidere il figlio gravemente disabile, un'altra uccide la figlia. Casi drammatici che potrebbero rientrare nella tipologia dell'omicidio "per pietà" ma il Codice penale non fa distinzioni

La notte tra il 7 e l’8 dicembre, a Orbassano (Torino) una pensionata di 85 anni ha ucciso a martellate la figlia di 45 anni, disabile dalla nascita, epilettica, con gravi disturbi cerebrali. Non ce la faceva più a vederla soffrire. Temeva di non riuscire più ad assisterla, quando nei fine settimana lasciava la comunità dove era seguita e tornava a casa. Si preoccupava pensando a quando sarebbe rimasta sola ad affrontare la malattia e le
difficoltà, una volta morti lei e il marito. Pochi giorni dopo, a Catania, un’altra madre stremata, una donna di 54 anni, ha cercato di fare la stessa cosa. Ha provato ad avvelenare e poi a soffocare il figlio ventenne, affetto da tetraparesi spastica e ritardo mentale. La tragedia è stata evitata grazie all’allarme dato dalla badante e ai soccorsi tempestivi.

I criminologi li chiamano omicidi “per pietà”

In passato gesti simili, in contesti analoghi, hanno avuto conseguenze irrimediabili. I criminologi li chiamano omicidi “pietatis causa” o “altruistici”, anche se sembra un paradosso. Sono i delitti commessi da genitori, figli, mariti e moglie, sorelle e fratelli o amici – debilitati fisicamente e psicologicamente, sfiniti, preoccupati, privi di aiuto e di sostegno – che arrivano al limite e mettono fine all’esistenza di un loro caro, disabile, malato gravemente, autosufficiente, senza alcuna speranza di migliorare e di ritrovare l’indipendenza. L’estremo atto violento, così spiegano alcuni esperti, viene giustificato con lo scopo di sottrarre le vittime a quella che presumono sarebbe una vita di sofferenze e di infelicità.

Che pena rischia chi uccide una persona disabile?

Ma che cosa rischia una madre, una persona che si arrende e uccide? Una risposta univoca non c’è. I fattori da valutare sono diversi e si possono combinare in più modi. Il codice penale non prevede una tipologia specifica. L’omicidio della persona disabile – se non è lei a chiedere di staccare la spina o se non dà il consenso – è perseguito allo stesso modo degli altri. La pena base, nel caso in cui tra autore e vittima non ci sia un rapporto di parentela, va da 21 a 24 anni, al lordo di possibili attenuanti e aggravanti (corrispondenti a riduzioni o maggiorazioni della pena fino a un terzo ) e della scelta del rito (con relativo sconto). Chi opta per l’abbreviato ha diritto al taglio secco di un terzo della condanna. Un esempio? La badante che uccide la persona accudita. Per l’uccisione di un figlio o di un genitore la pena base è, da sempre, l’ergastolo. La pena a vita, sulla spinta della battaglia contro i femminicidi, di recente è stata introdotta anche per l’omicidio di mogli e mariti (separati compresi), conviventi, partner di unioni civili. Ed è stata abolita, per i reati da ergastolo, la possibilità di essere processati con il rito abbreviato. Le condanne, dunque, sono destinate a salire. Se la vittima è l’ex consorte divorziato, il fratello o la sorella oppure un figlio adottivo – che sia disabile o no – il calcolo parte da 24-30 anni.

Cos’è l’omicidio pietatis causa

Ma che cosa fa la differenza tra l’assassino per gelosia o per denaro o l’omicida pietatis causa? L’applicazione di attenuanti e aggravanti può cambiare, e di molto, l’entità della pena erogata. Ma la leva che in genere viene azionata è quella della capacità di intendere e volere. Chi ha un totale vizio di mente non è perseguibile penalmente, al massimo rischia la misura di sicurezza dell’internamento in una struttura Psichiatrica. Il vizio parziale di mente determina la riduzione di un terzo della pena (che si può sommare alle riduzioni per le attenuanti o la scelta del rito). “In genere chi uccide una persona disabile – conferma la professoressa Isabella Merzagora , presidente della Società italiana di criminologia – viene sottoposto a perizia psichiatrica, anche se in molti casi si intuisce in quale situazione si posso venire a trovare una madre o un coniuge a contatto con chi ha una grave malattia invalidante. Non è detto che chi arriva a gesti estremi soffra di una vera e propria psicosi, spesso il livello di depressione è altissimo. E questo viene tenuto in considerazione dai giudici”.

L’omicidio del consenziente

Un esempio concreto? Nel 2002, a Milano, un padre 62 enne sparò al figlio di 33 anni, da tempo malato di sclerosi multipla. “Era una situazione senza vie d’uscita – spiegò -. Lui non voleva continuare a vivere a quel modo. Mi chiedeva di aiutarlo a morire, diceva che non sarebbe mai finito su una sedia a rotelle, come succede a tutti quelle che hanno la sclerosi multipla, malattia che non perdona. Non dico che sia stato giusto ucciderlo. Ho ritenuto di doverlo fare e l’ho fatto, per il rapporto che c’era con lui. Non c’è stata alcuna crisi, né un tracollo improvviso. Ho realizzato che Alessandro era peggiorato e che avrebbe continuato a peggiorare”. L’uomo venne ritenuto parzialmente incapace di intendere e volere dagli specialisti chiamati a valutare le sue condizioni. In primo grado prese 7 anni di condanna, con il rito abbreviato. In secondo grado la pena scese a 6 anni 10 mesi e 20 giorni. La particolare situazione ebbe riflessi anche prima del processo, nella fase delle indagini preliminari. Questo padre assassino non andò in carcere, fu posto agli arresti domiciliari. E non ebbe difficoltà, poi, a ottenere di scontare fuori dal carcere la condanna, ridotta ancora grazie all’indulto: fu affidato in prova ai servizi sociali. Per lui inizialmente si era parlato di “omicidio del consenziente”. Si tratta di un reato che a volte viene evocato per casi simili, ma è di rara applicazione in sede processuale. La pena base, sempre al lordo di tagli e riduzioni, va da 6 a 15 anni.

Quando la vittima è inferma di mente

“Attenzione – precisa l’avvocata torinese Anna Ronfani, penalista di lungo corso – a non generare aspettative e interpretazioni fuorvianti. Questo reato, sanzionato in modo meno pesante rispetto a un omicidio volontario, non è contestabile a chi causa la morte di una persona inferma di mente o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti. E nemmeno quando il consenso della vittima sia stato estorto con violenza, minaccia o suggestione oppure carpito con l’inganno. Si ricade nell’omicidio volontario”.

L’aiuto al suicidio

Altra ipotesi ancora è quella dell’aiuto al suicidio, il perno del “caso Cappato. La pena base va da 5 a 12 anni. Non è però punibile – ha sancito la Corte costituzionale, invitando il Parlamento a legiferare – chi consente a una persona malata di farla finita, ma solo in determinate e in precise circostanze. Non risponde penalmente delle sue azioni, detta con il lessico giuridico, colui che “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e  psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. L’omicidio di Orbassano e il tentato omicidio di Catania, per tornare alle tragedie di stretta attualità, non rientrano in questa tipologia.  

Per l’attivista radicale Marco Cappato, che nel 2017 accompagnò il dj Fabiano Antoniani in una clinica svizzera per suicidi, il processo riprenderà il 23 dicembre. “La sentenza della Consulta – precisa l’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni –  è applicabile dalla data di emissione in poi. Per lui si deve tornare in aula”.

Dagli archivi della cronaca giudiziaria milanese emerge una vicenda che aiuta a capire meglio a che cosa può andare incontro chi non regge più, la storia di un processo che è partito per omicidio e si è concluso con l’attribuzione del reato di aiuto al suicidio e la condanna, definitiva, a 4 anni di carcere. Il tema che fa riflettere è sempre quello di chi si trova a contatto con una persona disabile e cede. Una donna medico di 61 anni, nel 2016, fece ingurgitare alla madre 82enne una quantità letale di farmaci e poi tentò di togliersi la vita con una overdose di medicinali. L’anziana madre era invalida e cardiopatica e aveva bisogno di tutto. La figlia sopravvisse. “Ho resistito fino a quando ho potuto – si sfogò – poi ho fatto quello che la mamma mi chiedeva da tempo”. “Ancora oggi – disse il suo avvocato, a margine del processo – la mia assistita soffre del fatto di dover affrontare la vita, e di doverlo fare senza sua madre, con cui pensava avrebbe condiviso anche l’ultimo momento doloroso”.

Meno carcere preventivo, più misure alternative

Chi mette fine all’esistenza di un familiare o un assistito disabile – ultimo aspetto – potrebbe avere un trattamento particolare anche durante le indagini preliminari e nella fase dell’esecuzione della pena. Come è successo per il padre che ha ucciso il figlio con la sclerosi multipla – non più pericoloso e senza l’intenzione di fuggire o di cancellare le fonti di prova – al posto della custodia cautelare in carcere sarebbero applicabili gli arresti domiciliari, se non limitazioni della libertà meno dure (obbligo di andare a firmare in commissariato) o nessuna restrizione (permanenza totale in libertà, almeno fino al passaggio in giudicato della sentenza). E dopo la condanna definitiva – altra ipotesi probabile – sarebbe più semplice ottenere una misura alternativa alla detenzione in cella (senza passare dal carcere, nel caso di pochi anni da scontare).

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