Il libro più difficile non è mai il primo che si scrive, ma quello che viene dopo. Trovare un’altra storia, reggere il confronto, dimostrare che il successo, se c’è stato, era questione di merito e non di fortuna: l’impresa è questa e Annalena Benini, che tra i libri ha passato la vita, leggendoli prima e poi raccontandoli sul Foglio, presentandoli e scrivendone di bellissimi, lo sa.
Sa anche che il principio vale oltre i confini della letteratura, ma questo non sembra pesarle, almeno non a parole. Quando le chiedo come sta alla vigilia di questo Salone del Libro, il secondo, appunto, della sua direzione, risponde che sta molto bene anche se per scaramanzia non dovrebbe dirlo.
Il successo può intimorire o far volare in alto e i numeri record dello scorso anno (222.000 visitatori, 7.000 in più dell’edizione precedente) sono la base più solida da cui ripartire: risultati eccellenti che non stupiscono ma che non erano neppure scontati, un po’ come la sua nomina, arrivata quasi a sorpresa in un mondo, quello dell’editoria italiana, dove certi soffitti di cristallo sono ancora molto resistenti. «Ho lavorato con gioia e divertimento, rasserenata e resa più solida dai risultati dell’anno scorso di cui ho fatto tesoro in questi mesi» dice al telefono da Roma nell’ultimo scampolo di tranquillità prima della tempesta.

Perché leggere?
Che i libri facciano numeri del genere è confortante, non trova? «Sì, ma non mi stupisce. Il Covid ha lasciato in eredità il bisogno di stare insieme e la lettura, da azione solitaria che era, è diventata un momento collettivo, un’occasione per ritrovarsi. È questo il messaggio che con il Salone cerchiamo di diffondere: leggere è bello perché ti proietta in un mondo festoso fatto di scambi e di incontri dove la letteratura mette insieme forme di espressione diverse, arte, cinema, musica, podcast».
Come si impara a dirigere un evento così? «In realtà, fare il Salone assomiglia al fare un giornale: è un lavoro di squadra dove ognuno mette un pezzo della sua creatività. E poi, serve incontrarsi, condividere. Lo smartworking ci ha permesso di conciliare il lavoro con le nostre vite, ma ci ha fatto anche capire quanto sia importante stare assieme nello stesso posto. Io, infatti, al Salone cerco di esserci fisicamente il più possibile».
Ufficio a Torino, famiglia a Roma: come regge? «La mia vita è divisa a metà. Durante la settimana sto a Torino e il weekend torno a casa. Ma i miei figli ormai sono grandi, se la cavano e quando possono vengono a trovarmi. Reggiamo bene».
Salone del Libro 2025: l’anno della leggerezza
L’edizione di quest’anno è dedicata al tema della leggerezza. Perché?
«Viene da un romanzo di Lalla Romano, Le parole tra noi leggere, che amo molto e ogni tanto rileggo. Un giorno mi è capitato tra le mani e ho pensato: questo è un titolo. Dentro c’è tutto: le parole, il pronome noi e la leggerezza, che è materia preziosa. Il libro mette a nudo il rapporto tra una madre e un figlio, con tutto lo sgomento provocato dal capire che la persona che hai messo al mondo non è come te l’eri immaginata. Mi sembrava perfetto per introdurre la nuova sezione che abbiamo chiamato “Crescere” e affidato allo psicoterapeuta Matteo Lancini, dedicata a quel momento misterioso e faticoso della vita che è l’adolescenza».
Come si trovano le parole per comunicare con gli adolescenti?
«Accettando il dolore. I ragazzi hanno ancora una grande fiducia nel mondo adulto, la voglia di raccontarsi e condividere le proprie fragilità. Lo vedo nei gruppi di lettura del Salone. La nostra generazione questa attitudine non ce l’aveva e infatti gli adulti, per quanto si affannino a dire ai figli “Ti capisco e sono con te”, in realtà faticano moltissimo ad ascoltare il dolore dei ragazzi. Perché il dolore è disturbante, ti obbliga a chiederti da dove nasce».
La storia di Annalena Benini
Lei che adolescente è stata?
«Felice, divertita, piena di entusiasmo. Ho passato quegli anni immersa nei libri. Leggere era il mio modo di evadere dalle regole e dalle ansie dei genitori, di trovare quella libertà che non mi sembrava mai abbastanza».
La scrittura come è entrata nella sua vita?
«Dalla lettura. Lessico famigliare di Natalia Ginzburg è stata la scintilla che mi ha fatto pensare che forse anche io avrei potuto diventare scrittrice. E infatti passavo pranzi e cene di famiglia a fantasticare su quello che avrei raccontato dei miei parenti: la madre, la zia, la nonna».
Prima di diventare scrittrice, però, è diventata giornalista.
«Ho avuto la fortuna di entrare nella redazione del Foglio dopo la laurea, in stage. Lì ho imparato a fare interviste e a raccontare una notizia. Giuliano Ferrara, bravissimo a vedere i talenti che le persone non sapevano di avere, mi ha lasciato anche la libertà di esplorare le mie capacità narrative. E a poco a poco mi sono spinta verso la letteratura».
Il soffitto di cristallo
Conciliare la scrittura e la vita non è scontato, specialmente per le donne. Gli stereotipi e lo sguardo degli altri pesano ancora?
«Per quanto riguarda me, no. Mi è successo di avere una figlia, poi un figlio, proprio nel momento in cui avrei dovuto concentrarmi sul lavoro, ma ho vissuto tutto con naturalezza e forse anche incoscienza.
Niente di quello che ho fatto o che non ho fatto per dedicarmi ai bambini è stato un sacrificio: il conflitto tra un mondo e l’altro non l’ho sentito. Anzi, tornassi indietro, lavorerei di meno e mi godrei di più i figli. Detto questo, sono stata molto fortunata, perché ho avuto tutte le tutele e nessuno mi ha fatto pesare la scelta di essere madre. Un privilegio che le donne che scrivevano, soprattutto nel passato, non hanno avuto».
Eppure una donna in un ruolo come il suo fa ancora notizia.
«Purtroppo, sì. E arrivarci costa una fatica enorme. Adesso che sono decisamente adulta, sento ancora di più la rabbia per aver sempre dovuto dimostrare qualcosa: il doppio della fatica, il doppio dell’autocritica, il doppio di tutto. Sempre. Strada facendo non ne ero così consapevole: mi sembrava naturale e giusto. Oggi invece so quanta fatica in più ho fatto e facciamo tutte per essere prese sul serio in quanto donne e madri, scrittrici, giornaliste. E invece di ricevere i grandi monumenti che ci meriteremmo, stiamo ancora qui a chiederci se siamo state abbastanza brave e a tormentarci su quello che abbiamo fatto. Ecco, io con i tormenti ho chiuso».