Micaela Ramazzotti

Micaela Ramazzotti da regista racconta la violenza e gli abusi sulle donne

Lo stereotipo "giovane e sexy" l'ha accompagnata dall'inizio della carriera. Ma, con una faticosa gavetta, si è affermata come una delle attrici più intense del cinema italiano d'autore. E ora Micaela Ramazzotti esordisce alla regia con "Felicità", premiato al Festival di Venezia. «La vulnerabilità è la mia forza»

Quant’è brava Micaela Ramazzotti a raccontare la fragilità. Come se ce l’avesse dentro da sempre, una compagna di cui conosce ogni inquietudine e si libera solo recitando. Ce ne regala un nuovo ritratto in Felicità di cui è regista e autrice oltre che attrice, dal 21 settembre in sala dopo aver ricevuto il Premio degli spettatori – Armani Beauty alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti Extra dov’è stato presentato.

«Lo dedico a chi sta vivendo un momento difficile: l’infelicità può durare a lungo ma bisogna continuare a lottare per la felicità» ha detto ringraziando, con la pazza gioia in lotta con la commozione. Il film racconta la storia di Desirè, nelle cui insicurezze potranno specchiarsi in molte. Un’opera personale? «Sì, ma non autobiografica. Ho attinto ai ricordi, ma ne è rimasta solo un’eco lontana» risponde la 44enne attrice al debutto dietro la macchina da presa. Una svolta professionale avvenuta parallelamente a quella personale: la separazione dal regista Paolo Virzì dopo 16 anni e due figli insieme, Jacopo e Anna, 13 e 10 anni. Parla con l’aria solare e ipersensibile che ricorda i suoi film più riusciti: da La prima cosa bella dello stesso Virzì, che le ha portato il David di Donatello, a decine di titoli d’autore, come Anni felici di Daniele Luchetti e La tenerezza di Gianni Amelio. «Stavolta ho voluto raccontare una famiglia distorta e due figli soggiogati da genitori egoisti e manipolatori».

Intervista a Micaela Ramazzotti

Perché proprio questa storia?

«Ho sempre creduto nella forza di donne come Desirè, ce ne sono tante nelle periferie romane dove ho vissuto. Cresciute nella trascuratezza, nelle vessazioni. Desirè viene trattata da scema, molestata sul lavoro, maltrattata dai genitori e da un compagno più grande, che la giudica e cerca di manipolarla (interpretati da Max, Tortora, Anna Galiena, Sergio Rubini, ndr). Lei però ha cuore, e lotta facendosi carico anche del fratello (Matteo Olivetti) e dei suoi problemi di salute mentale».

Il titolo è ironico?

«Uno sberleffo, visto che di felicità nella sua vita non ce n’è. E pure autoironico: mi sono presa in giro, per i personaggi dolenti che ho spesso interpretato».

Micaela Ramazzotti: raccontare la vulnerabilità

Foto: Lucia Luorio – Micaela Ramazzotti con Sergio Rubini in Felicità, al cinema dal 21 settembre per 01 Distribution

Molti attori evitano ruoli simili ai precedenti. Lei ama la vulnerabilità?

«È la mia cifra. Mi piace raccontare il disagio e la voglia di uscirne. Ho dato volto anche a donne emancipate e toste, però non hanno avuto lo stesso successo (ride, ndr). È il mio patto con il cinema e il pubblico».

Senza fare spoiler, Felicità tocca anche il tema molto attuale degli abusi e delle violenze.

«Ci tengo moltissimo a far capire quanto un abuso possa segnare una persona. Le vittime di molestie si sentono in colpa e tengono tutto dentro, finendo per proteggere i loro stessi carnefici. A tutte quelle che si trovano in situazioni simili vorrei dire, anche attraverso il film, di non fare questo errore: la violenza, fisica, o psicologica, va denunciata subito per voltare pagina».

È stato difficile mostrare la cruda vita sessuale di Desirè con il compagno?

«Ho costruito il personaggio con la scrittura, me lo sono cucito addosso. E la mia faccia tosta ha fatto il resto. Una donna che cresce nel disamore non conosce altro linguaggio e, quando litiga con il suo uomo, sa fare pace solo offrendo sesso».

Diventare Micaela Ramazzotti

Foto IPA – Micaela Ramazzotti mentre ritira il Premio degli spettatori all’ultima Mostra di Venezia, dove ha presentato il film di cui è anche regista

Lei è di Axa, alle porte di Roma. Da adolescente già posava per i fotoromanzi, poi ha fatto una lunga gavetta. Ha mai provato il senso di inadeguatezza che descrive così bene nel film?

«In effetti ho iniziato da ragazzina, venendo da una famiglia con lavori e stipendi, diciamo, “normali”. La mia gavetta è stata lunghissima, faticosa, ho trottato molto senza l’aiuto di nessuno. Detto questo, ognuno si porta dietro il suo mondo, crescendo ti adegui a quello che hai intorno. Ti senti inferiore se ti ci fanno sentire, cosa che a volte mi è successa, ma è accaduto anche il contrario, molti mi hanno rispettata e valorizzata, proprio per come ero. Di sicuro, quando sei giovane, bionda e sexy hanno tutti un pregiudizio».

E lei come reagiva?

«Magari facevo credere loro quello che volevano, ma ne ero consapevole. Io il pregiudizio lo scanso, è una delle cose peggiori: le sorprese più grandi ti arrivano quando accogli l’umanità e la diversità. Siamo tutti buff, macchiette piene di imperfezioni e alla fine dobbiamo stare sullo stesso treno. Nel film ho messo quello che conosco, la periferia, il mondo del cinema e gli intellettuali. Li ho resi tutti mostri!»

Una piccola soddisfazione personale?

«Li ho dipinti feroci perché non li volevo pallidi, perché il film fosse anche il ritratto di due Italie, a confronto. E più gli altri sono mostri, più i due fratelli protagonisti appaiono anime pure».

Micaela Ramazzotti: oltre l’artista

Ha lavorato e vissuto con Paolo Virzì. Pensa di aver imparato, come regista, dal suo ex marito?

«In una coppia c’è sempre uno scambio, che io vedo alla pari. Siamo stati insieme per 16 anni, io ho imparato da lui e lui da me. Ha fatto film memorabili di cui ero protagonista. Ma ho avuto altri maestri, da Pupi Avati che mi ha diretta in La via degli angeli, a Gianni Amelio, regista di La tenerezza. Ho fatto soltanto cinema nella mia vita e adesso ho trovato il mio tono e il mio sguardo, dolcemente doloroso».

Quanto conta per lei, oggi, frequentare persone che hanno le stesse passioni?

«Molto. Ho amiche come Elisa Amoruso, regista fantastica, la prima alla quale ho mostrato il mio film, e Chicca Ungaro, direttrice della fotografa. Mi hanno entrambe incoraggiato moltissimo, insieme alle cosceneggiatrici Isabella Cecchi, attrice e autrice che vive in Toscana, e Alessandra Guidi, docente universitaria a Pechino. Siamo partite da noi per scrivere la storia, ci davamo appuntamento su Skype e ognuna poteva staccare per occuparsi dei figli o di altro, con la totale comprensione delle altre, senza doverci giustificare».

I suoi figli sono cresciuti respirando cinema. Di Anna, la più piccola, è stata perfino ripresa la nascita da Francesca Archibugi in Il nome del figlio. Seguiranno le orme dei genitori?

«Sono ancora piccoli. Jacopo per ora sembra amare soprattutto il calcio e il suo gruppo di amici, Anna è più affascinata dal cinema. Ma spero che si emancipino da noi e non scelgano questo mondo così duro, soprattutto all’inizio. E poi di artisti ce ne sono già tanti in casa, un medico o un avvocato potrebbero servire molto di più!».

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