«Sia chiaro che è falso, nessun muro ha davvero le orecchie! Però certe volte temiamo che invece ce le abbiano, le orecchie, e allora ci mettiamo a parlare a voce molto bassa. Per parlare male dei genitori che sono di là, per esempio. E spesso ci piacerebbe parecchio essere le orecchie di un muro. Quando i genitori sono di là a parlare di noi, per esempio». Prendiamo due funamboli delle parole, Daniel Pennac e Stefano Bartezzaghi, mettiamoli insieme e chiediamo loro di inventare un mondo perfetto, in cui le lettere dell’alfabeto fanno le capriole, creano modi di dire divertenti e surreali, solleticano la fantasia ed evocano nuovi mondi.
Il libro di Daniel Pennac e Stefano Bartezzaghi
Daniel Pennac e Stefano Bartezzaghi hanno deciso di scrivere insieme il libro Le parole fanno il solletico (Salani). Attraverso storie divertentissime si parla di modi di dire spassosi ed equivoci esilaranti tra Lollo, Anna, Zingo, Lisina e Romeo, la loro zia Frignola e il cugino italiano Marcello che va a trovarli in Francia. I momenti più allegri di questa surreale vacanza in famiglia sono quelli in cui i protagonisti imparano una caterva di modi di dire dell’una e dell’altra lingua e ridono a crepapelle su fraintendimenti, similitudini e differenze.
L’intervista a Daniel Pennac e Stefano Bartezzaghi
Come nasce questo libro, che è un inno d’amore alle parole?
Daniel Pennac: «Nonostante la differenza d’età (Pennac ha 80 anni, Bartezzaghi 62, ndr), abbiamo sempre amato giocare con le parole insieme, Stefano e io. Quando era piccolo, lui non smetteva mai. Bisognava imbavagliarlo per andare a tavola. Questo lo rendeva difficile da nutrire…».
Stefano Bartezzaghi: «Abbiamo pensato che un libro con storie del grande Daniel Pennac sui modi di dire sarebbe stato apprezzato dal pubblico italiano, con qualche aggiustamento dovuto alle lingue diverse».
Chiudere il becco, dare una mano, avere il cuore in gola… Perché i principali modi di dire sono legati alle parti del corpo?
Pennac: «Probabilmente perché il corpo è il nostro primo terreno di osservazione. Nel Medioevo si davano spesso alle persone nomi derivati dalle loro caratteristiche fisiche. Il signor Leborgne probabilmente era un pover’uomo con un solo occhio. Il signor Lepetit non era molto alto, il signor Gros non doveva essere un tipo magro. Fateci caso, capita anche con soprannomi e cognomi italiani».
Bartezzaghi: «Ci sono molti modi di dire non legati al corpo, ma i tanti che lo sono ci ricordano che il corpo è quel che abbiamo in comune con gli altri esseri umani parlanti. Quindi è molto più facile immedesimarsi quando qualcuno dice “Ce l’hai sotto il naso” o “Prendere di petto”».
Il modo di dire che più vi piace nella lingua dell’altro?
Pennac: «Per me non è un’espressione, è una parola: “magari”. Magari è una parola-mondo. Si può suggerire tutto solo con un magari. Serve anche a non dire ciò che non si ha voglia di dire. Straordinario: magari! Viva magari! Votate magari!».
Bartezzaghi: «Non è nel libro: “attacher lundi avec mardi”, attaccare il lunedì al martedì. In francese si usa quando si sbaglia la corrispondenza fra asola e bottone in una camicia».

La lingua cambia, ma attenti a non impoverirla
Le lingue sono organismi in evoluzione. La Francia, si sa, è più propensa a tutelarsi dai forestierismi, l’Italia più tollerante. Pensate che la globalizzazione del linguaggio stia impoverendo le lingue nazionali?
Pennac: «Questo è un perpetuo motivo di litigio alla francese. La lingua è un organismo che si adatta non solo all’intrusione di parole straniere, ma anche ai nomi di nuovi mestieri, al linguaggio d’impresa. Oggi si dice “gestisco” al posto di “me ne occupo”. Le “occasioni” sono diventate “opportunità”, all’inglese. Questo mi irrita, a livello personale, ma non mi scandalizza».
Bartezzaghi: «Sarebbe come essere contrari ai monsoni o alle maree. Certi fenomeni non possono essere governati, al massimo osservati e compresi. Certamente un inglese impoverito fa da lingua franca, ormai anche nelle università. Ma il problema riguarda anche l’italiano: si è continuamente incoraggiati a impoverire la lingua nazionale, scegliendo sempre le parole più comuni e perdendo così le sfumature e la precisione della lingua».
Il libro è per bambini dai 9 anni, che spesso vivono le parole come qualcosa di “scolastico”. Intendete mandare un messaggio opposto?
Pennac: «Non penso che le parole sembrino noiose ai bambini, al contrario penso che ne siano interessati. Possono spaventarli se i genitori le usano per sgridarli, farli ridere se sono battute, sorprenderli se sono nuove per loro, farli esultare di gioia se le inventano da soli. Ma le parole non lasciano i bambini indifferenti. È meraviglioso vederli partire alla loro conquista».
Bartezzaghi: «Non intendo dare nessun messaggio, mai. Sono convinto che i messaggi nuocciano al divertimento».
Ci sarà sempre bisogno di storie
Come avete collaborato nella scrittura? C’è qualche aneddoto da raccontare?
Pennac: «Quando Bartezzaghi faceva il cattivo, lo costringevo a mangiare un formaggio francese. E lui, un giorno, ha provato ad annegarmi in una botte di Lambrusco».
Bartezzaghi: «In una riunione a casa sua, dopo aver mangiato il couscous (eccellente) che aveva preparato, Pennac ha inventato la storia del piccolo Zingo e ho potuto ammirare la sua creatività in eruzione».
Quali sono le vostre storie preferite nel libro?
Pennac: «Sono sempre le prossime che scriverò!».
Bartezzaghi: «Oltre alla storia di Zingo, quella su “essere sordo come una campana”, resa in modo geniale dall’illustratrice Francesca Arena».
I giovanissimi sono sempre sui device. Pensate che ancora abbiano bisogno di storie?
Pennac: «A questa domanda dovrebbero rispondere i genitori, quando smetteranno di regalare queste “macchine” ai loro figli e inizieranno a leggere loro le storie ad alta voce».
Bartezzaghi: «Le storie ci sono sempre state, sono disponibili anche negli attuali device. Mi sembra che ciò non dia una garanzia, ma una buona probabilità alla loro permanenza futura».