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Se il machismo nasce dal porno: intervista a Lilli Gruber

Sembra una provocazione: non lo è. Va dritto al punto il titolo del nuovo saggio della celebre giornalista. Che denuncia come il consumo sempre più diffuso e sempre più precoce di video hard alimenti i disvalori di «una cultura patriarcale che sta rialzando la testa». E mette a rischio la libertà, i diritti, la vita delle donne. «Stiamo facendo enormi passi indietro»

Un’inchiesta sulla pornografia firmata da Lilli Gruber. La celebre giornalista, che dal lunedì al venerdì analizza l’attualità in Otto e mezzo su La7, è nelle librerie con Non farti fottere. Come il supermercato del porno online ti ruba fantasia, desiderio e dati personali (Rizzoli). «Ho voluto raccontare un mondo che in Italia è pochissimo esplorato» spiega lei, già autrice di una quindicina tra saggi e reportage di natura soprattutto politica.

Anche questo, in fondo, lo è. Non solo perché è profondamente legato alla sessualità e alla formazione dei giovanissimi, attratti da una produzione hard cresciuta a dismisura con la Rete: secondo il centro studi americano Statistics&Data, nel 2022 le 5 maggiori piattaforme del porno hanno avuto una media mensile di 10 miliardi di accessi.

Ma anche perché certi aspetti della pornografa sembrano legati al “machismo di ritorno” che la giornalista documenta prendendo spunto dai numerosi episodi di abusi e violenze che coinvolgono i minori. «La mia generazione si era illusa che la liberazione sessuale conducesse a una società più inclusiva. Invece siamo di fronte a un sistema patriarcale che rialza la testa» sottolinea.

Intervista a Lilli Gruber

Già dal titolo, il suo saggio contiene un messaggio preciso. È un grido di allarme sui giovanissimi?

«Sì. Se gli adulti sono abituati a distinguere la realtà dalla fiction, i ragazzi rischiano di pensare che quel che vedono sullo schermo sia la verità, anche perché gli attori fanno sesso davvero. Capiscono di non poter replicare quelle performance però ne sono attratti, e così otteniamo generazioni molto insicure e a rischio violenza».

Nel libro cita Elena Cecchettin, che dopo il femminicidio della sorella Giulia ha parlato di “cultura dello stupro”: anche l’hard ne è parte?

«Non ci sono ricerche che confermino un nesso causa-effetto tra pornografa e tassi di violenza. Ma la donna nel porno è quasi sempre sottomessa, a volte umiliata e malmenata. Un Paese dal retaggio patriarcale come l’Italia non ha certo bisogno di questo immaginario. La cosa preoccupante è che il consumo di porno fin dai 10-11 anni lo riproponga con forza ai più giovani. Rischiando di farci fare enormi passi indietro».

La cultura patriarcale è ancora più radicata al Sud che al Nord?

«Il problema non è geografico: è economico. Il machismo avanza dove le donne sono meno libere e indipendenti. Anche la scelta di una “carriera” nella pornografa è per molte la risposta a difficoltà economiche, non a caso le fabbriche del porno si trovano nell’Est Europa dove il costo del lavoro è più basso».

La liberazione sessuale ci ha veramente liberate?

Non farti fottere. Come il supermercato del porno online ti ruba fantasia, desiderio e dati personali (Rizzoli) è l’ultimo libro della giornalista Lilli Gruber: un’inchiesta sulla pornografa in Rete.

I primi film a luci rosse rispecchiavano lo spirito della liberazione sessuale. L’ipermercato dell’hard ci riporta indietro?

«Nell’Italia moralista e cattolica degli anni ’70 la pornografa ha avuto un ruolo di rottura. Ma era un porno a pagamento e riservato ai maggiorenni. Roberto D’Agostino ricorda di aver imparato così a dare piacere a una donna. Oggi siamo immersi in un mare magnum di sesso ripetitivo e spesso violento, in cui il piacere femminile è l’ultimo dei temi. Volevamo il pane e le rose, abbiamo ottenuto gang bang ed eiaculazione facciale. Sì, a me sembra un passo indietro».

Quali conquiste del femminismo possiamo ritenere consolidate e quali a rischio?

«Nessuna libertà è conquistata per sempre e non lo ripeteremo mai abbastanza ai giovani. Nel 2022, negli Usa, la Corte Suprema ha abolito la storica sentenza Roe contro Wade con cui nel 1973 era stato legalizzato l’aborto: dopo 50 anni, un passo indietro gigantesco».

Figure come Rocco Siffredi o Moana Pozzi, simboli della cultura pop, sono uno specchietto per le allodole?

«Le star del porno appartengono alla cultura pop, ma non sono maître à penser. Fa tutto parte di un’ondata, recentissima, di “porn washing”: contando sull’effetto nostalgia, si celebra una vera o presunta età dell’oro del porno per distogliere l’attenzione dalle tante magagne di quella attuale. Come pedopornografa, sfruttamento, violenza, revenge porn e altri reati che prosperano nelle zone grigie del settore».

Siffredi si è speso per un’educazione sessuale dei ragazzi, perché distinguano il porno dal sesso.

«La conversione di Siffredi ha probabilmente a che fare più con il modello economico attuale che con le crisi di coscienza. I colossi internazionali schiacciano i produttori indipendenti come lui. Quali che siano le sue ragioni, ha il merito di far parlare di educazione sessuale nelle scuole. E comunque una politica che lascia queste iniziative a Siffredi ha molto di cui vergognarsi. Siamo fanalino di coda in Europa, tra gli ultimi 6 Paesi a non averla insieme a Bulgaria, Cipro, Polonia, Lituania e Romania. È ora di istituirla».

Perché la politica non se ne occupa?

«I motivi sono diversi. La doppia morale italiana, per esempio, per cui la pornografa si guarda – siamo gli ottavi migliori clienti di Pornhub al mondo – ma non se ne parla. E gli enormi interessi economici in gioco, che solo una politica coraggiosa potrebbe contrastare».

Secondo Roberto D’Agostino, il porno ha salvato la salute mentale soprattutto dei maschi, in crisi dopo i cambiamenti degli anni ’70. Cosa ne pensa?

«L’importante non è avere una tesi sulla pornografa: è parlarne, capirne i meccanismi».

Dei sex workers che ha intervistato, qualcuno l’ha colpita particolarmente?

«Il racconto di Roberta Gemma di una “fabbrica del porno” dell’Est Europa: un edificio in cui un piano è dedicato ai dormitori delle ragazze, uno a quello dei maschi, uno agli studios dove girano video hard ogni giorno. Sembra una catena di montaggio applicata al corpo umano. Se questi posti esistono, possiamo davvero dire che in Europa non ci sia la schiavitù?».

Ha dedicato il libro ai suoi genitori, che le hanno “insegnato a essere libera”.

«Mia madre Herlinde mi ha spiegato da dove vengono i bambini quando avevo 6 anni. Mio padre Alfred ha mostrato a me e a mia sorella maggiore Micki i disegni di come avviene la fecondazione. Nella provincia perbenista degli anni ’60, la conoscenza è stata la prima chiave per la libertà».

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