Sinead O'Connor

Morte Sinead O’Connor: cos’è la sindrome del cuore spezzato

Anche se la morte di Sinead O'Connor viene attribuita a cause naturali, c'è chi ha sollevato l'ipotesi della sindrome del cuore infranto, una sofferenza cardiaca derivante da forte stress e dolore emotivo

Ufficialmente i medici hanno dichiarato che Sinead O’Connor è morta per cause naturali. Ma un ex della cantante, il poeta Dermott Hayes – che ne ha scritto la biografia – aveva attribuito subito la prematura scomparsa dell’artista irlandese al suo “cuore spezzato”: ai grandi dolori che hanno costellato la vita della star di “Nothing Compares 2 U”, primo fra tutti la morte del figlio Shane, suicida soltanto 18 mesi prima della scomparsa della madre. Ma una ricerca effettuata in Scozia evidenzia come la “sindrome del cuore infranto” esista e possa essere letale quanto un attacco di cuore.

Gli accertamenti sulla morte di Sinead O’Connor

Sinead O'Connor

Sinead O’Connor è stata trovata senza vita a 56 anni nel suo appartamento londinese lo scorso 26 luglio. Per gli investigatori non si trattava di una morte sospetta e i periti ne hanno dato poi la conferma. Il medico legale di Londra, con una dichiarazione rilasciata al tribunale di Southwark, ha infatti parlato di cause naturali. Scotland Yard aveva fornito pochi dettagli della fine di O’Connor, dicendo soltanto di averla trovata senza vita nella sua casa e di non considerarne la morte come “sospetta” per rinviare al referto definitivo di un’autopsia del medico legale ogni conclusione certificata sulle cause del decesso. Dopo la sua scomparsa i media avevano ricordato i disordini bipolari che la affliggevano oltre al messaggio sulla soglia della disperazione da lei diffuso nel 2022 tramite i social, dopo il suicidio di uno dei quattro figli, il 17enne Shane.

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La “sindrome del cuore infranto”

Conosciuto dal punto di vista medico come sindrome di Takotsubo, la “sindrome del cuore infranto” è una sofferenza cardiaca innescata da un estremo disagio emotivo, come la morte di una persona cara. Questa cardiomiopatia è una reazione del cuore a un improvviso rilascio di ormoni dello stress. Ciò fa sì che una parte del cuore si ingrandisca temporaneamente e faccia fatica a pompare il sangue correttamente. La sindrome di Takotsubo è solitamente temporanea e molte persone guariscono completamente. Ma uno studio del 2017 ha suggerito che, in alcuni casi, la sindrome potrebbe influenzare in modo permanente il movimento di pompaggio del cuore.

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La ricerca sulla sindrome di Takotsubo

Questa cardiomiopatia da stress può riprodurre i sintomi tipici dell’infarto – inclusa mancanza di respiro e dolore al petto – e, stando ai risultati di una ricerca scozzese riportata dal “Daily Mail”, può portare a effetti letali. Nel corso di uno studio quinquennale, basato su quasi 4.000 persone, circa un quarto dei pazienti affetti da questa condizione è deceduta. I ricercatori hanno affermato che questo dato era “paragonabile” alle morti per attacchi di cuore. I ricercatori hanno valutato le cartelle cliniche di 3.720 persone, di cui 620 affette da sindrome di Takotsubo, tra il 2010 e il 2017. Nel corso di un follow-up di cinque anni e mezzo, 153 pazienti affetti da questa condizione sono morti (25%), secondo i risultati pubblicati sulla rivista “JACC: Advances”. Un tasso di mortalità superiore a quello del gruppo di controllo dello studio (15%) e quasi pari a quello dei decessi tra coloro che hanno subito attacchi di cuore (31%).

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Gli scienziati dell’Università di Aberdeen hanno detto di essere “sorpresi” dal fatto che dal fatto che i pazienti con la sindrome di Takotsubo fossero curati allo stesso modo dei pazienti con “infarti classici”. “È fondamentale identificare modi precisi per trattare questo gruppo di persone”, ha dichiarato Dana Dawson, consulente cardiologa presso l’Aberdeen Royal Infirmary. La cardiomiopatia Takotsubo è più comune tra le donne che tra gli uomini ed è più probabile che colpisca le persone anziane, che hanno maggiori probabilità di perdere la persona che li ha accompagnati per tutta la vita. La British Heart Foundation (BHF), che ha finanziato lo studio dell’Università di Aberdeen, ha esortato il governo a investire in ulteriori ricerche.

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