Nancy Porsia
La giornalista indipendente Nancy Porsia

Nancy Porsia: «Denuncio il traffico dei migranti»

Giornalista indipendente, Nancy Porsia ha lavorato in Libia per 6 anni. Non solo ha documentato la guerra civile: è stata la prima a parlare dei criminali che lucrano sui disperati disposti a rischiare la vita nel deserto o sui barconi. «Voglio capire e far capire» racconta in questa intervista

Chi è Nancy Porsia

Cos’è il Mal di Libia? «Un fardello di amore e pena per questa terra ostile con le sue figlie, i suoi figli e i poveri disgraziati che la attraversano» scrive Nancy Porsia in Mal di Libia. I miei giorni sul fronte del Mediterraneo (Bompiani). Dopo che ci siamo parlate, a fine luglio a Roma 20 Stati, tra cui la Libia, e diverse organizzazioni internazionali hanno raggiunto un accordo per combattere, attraverso la collaborazione fra i Paesi del Mediterraneo, il traffico dei migranti. Una piaga atroce, come le immagini dei corpi senza vita di Fati Dosso e della sua piccola Marie, scaricate come pacchi nel deserto e ritrovate pochi giorni fa al confine tra Tunisia e Libia. Fati Dosso era della Costa d’Avorio e in Libia, racconta Refugees in Libya, aveva accarezzato il sogno di raggiungere l’Europa ma aveva conosciuto solo la detenzione, per quattro volte. Nel suo libro Nancy Porsia, reporter di guerra, giornalista esperta di Medio Oriente, Nord Africa e Corno d’Africa racconta storie simili di persone incontrate negli anni trascorsi in Libia come freelance collaborando con televisioni e quotidiani italiani e internazionali.

Il suo impegno in prima linea

In prima linea durante lo scoppio della guerra civile, Nancy Porsia era l’unica voce rimasta a documentare quello che stava accadendo anche dopo l’arrivo dei combattenti dell’Isis all’inizio del 2015. Nel 2016 ha pubblicato un’inchiesta sulla collusione tra la guardia costiera libica e i trafficanti di esseri umani. È stata minacciata, ha avuto il telefono sotto controllo e ora in quel Paese tanto sofferto e tanto amato non può tornare perché le è stato negato il visto. In Libia è arrivata la prima volta il 4 novembre del 2011, due settimane dopo la morte di Gheddafi. Per un anno Nancy Porsia ha viaggiato tra Nord Africa, Europa e Medio Oriente in cerca di storie da raccontare, poi ha deciso di tornare a Tripoli e di viverci. E lì ha assistito al cambiamento di un Paese che dopo la dittatura era in fermento, sembrava rinascere e poi si è ritrovato allo sbando.

Come Nancy Porsia ha cominciato a occuparsi di migranti

Com’è iniziato tutto?

«Nel 2006, quando ero in Siria a studiare arabo all’università di Damasco. Venivo dalla militanza politica, volevo stare sul campo, nelle zone di conflitto, e dovevo decidere se prendere la strada della cooperazione internazionale o quella del giornalismo. Tornata in Italia, dopo 3 anni al desk di una tv, appena è scoppiata la rivoluzione in Libia sono partita».

Una scelta radicale.

«Mi sono resa conto dopo, col tempo e con quello che ho vissuto, che è stata una scelta forte. Però lì per lì è stato un percorso naturale. Quando sono arrivata, la Libia era in festa e poi ha sviluppato tutte le contraddizioni e i problemi di una post-rivoluzione. Mi sono innamorata del Paese, ho capito subito che era una storia non raccontata. La si conosceva in termini geopolitici, per Gheddafi, ma del popolo libico non si sapeva praticamente nulla. Ho pensato che per me, giornalista indipendente, fosse il luogo giusto».

Ha avuto comunque molto coraggio.

«Quando mi sono trasferita in pianta stabile, nel 2013, per “gli internazionali” era un posto tutto sommato sicuro. All’inizio ho lavorato un po’ per le ong, come consulente, perché ai media il Paese non interessava. Fino alla strage del 3 ottobre del 2013, quando un barcone si è ribaltato davanti alle coste di Lampedusa e sono morte 368 persone. Poi nel 2014, quando è scoppiata la guerra civile e la Libia è diventata una breaking news, io ero lì già da un anno e mezzo e avevo tutti gli strumenti per orientarmi e poterla raccontare».

I rischi che Nancy Porsia ha corso

Ha anche rischiato la vita.

«Quello fa parte dei rischi calcolati. Lo sai, lo metti in conto, però sul terreno hai una rete solida che ti aiuta a gestire il rischio. Vivendo lì avevo imparato a conoscere la demografia del territorio, la mappatura delle milizie. Sapevo qual era l’equilibrio tra quelle dello Stato islamico e quelle a protezione del territorio. Un vantaggio rispetto ai giornalisti e alle troupe che entravano e uscivano dal Paese».

A un certo punto ha anche sofferto di burnout.

«Mi sentivo schiacciata su due fronti: dal punto di vista emotivo e dal punto di vista politico, vedevo una rivoluzione che stava deragliando e mi sentivo caricata di tanta responsabilità».

In che senso?

«I libici mi coinvolgevano, mi vedevano come una persona che poteva parlare e fare qualcosa: volevano che intercedessi per loro con la comunità internazionale, è capitato in un paio di occasioni. E poi dovevo prendere decisioni come freelance in completa autonomia. Sentivo la precarietà anche se lavoravo tantissimo».

Il giornalismo di indagine sociale di Nancy Porsia

La dimensione della guerra, lei scrive, si respira di più nelle retrovie che al fronte.

«La linea del fronte è una delle dimensioni di un conflitto, talvolta la meno importante. Bisogna invece capirlo nella sua “economia” globale, come si trasforma un Paese quando finisce. Quella della Libia è una guerra combattuta a bassa intensità che provoca crisi di liquidità e ha portato i migranti ad abbandonare in grandi numeri il Paese perché non potevano più mandare le loro rimesse a casa con il money transfer. Oltre alla conta dei morti, quando scoppia un conflitto, bisogna pensare alla gente che è costretta a rinunciare al proprio futuro e a come reagisce. Ho cercato di fare un giornalismo di indagine sociale. Sono stata la prima a raccontare la sofferenza dei migranti e la comunità dei trafficanti. Perché è lì che trovi le informazioni utili per capire qual è il margine di azione, se c’è, per interrompere questa spirale. Che ci siano i migranti che soffrono e vengono torturati nelle prigioni libiche lo sappiamo. Io voglio capire come ci finiscono».

Cosa ha scoperto?

«Che c’è una differenza sostanziale fra trafficanti e passatori, gli “smuggler”. Il problema è la militarizzazione dei confini, a nord nel Mediterraneo a sud nel deserto. Più militarizzi più allontani i passatori, che offrono il servizio per far attraversare i confini a chi non ha il visto, in modo illegale ma più sicuro, e arrivano i trafficanti. Gente senza scrupoli, che inventa percorsi sempre più precari e pericolosi. Per non incappare in problemi con i militari, scaricano i migranti nel deserto senz’acqua o li abbandonano in mare, e scappano».

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