Da un lato il dolore per le vittime, dall’altro lo sconcerto per quanto accaduto. Nel mezzo qualche dubbio e una domanda ricorrente: si poteva prevedere che un “detenuto modello” come era stato definito Emanuele De Maria, con un lavoro fuori dal carcare, potesse commettere un nuovo reato, dello stesso tipo e con le stesse modalità, cioè l’uccisione di una donna a coltellate? Quanto può essere utile (e sicuro) il lavoro fuori dal carcere? «Il rischio è proprio questo: che dopo questa vicenda e un prevedibile giro di vite, molti si vedano negata la messa in prova e dunque un percorso di reinserimento sociale», commenta Elena Lepre, avvocata penalista, cassazionista, consigliera fondatrice dell’associazione “Carcere Possibile O.N.L.U.S”, con lo scopo di offrire solidarietà sociale, civile e culturale alla popolazione detenuta.
Lavoro fuori dal carcere: gli interrogativi sul caso De Maria
De Maria aveva sempre tenuto un comportamento corretto «anche durante i due anni di lavoro» come receptionist all’Hotel Berna e «senza che nulla potesse lasciare presagire l’imprevedibile e drammatico esito», scrive il presidente della Corte d’appello di Milano, Giuseppe Ondei a due giorni dal drammatico epilogo della vicenda. Anna Maria Oddone, presidente facente funzioni del Tribunale di Sorveglianza di Milano, in una nota parla invece di «tragici eventi». Molto più duro il marito di Arachchilage Dona Chamila Wijesuriya, la 50enne italo-cingalese uccisa da De Maria e trovata morta al Parco Nord. «Mi chiedo, e questa sarà la domanda che continuerò a porre, perché a questa persona non sono state fatte delle perizie? Perché era in giro?», ha detto Himanshu al Corriere della Sera.
Qualcosa non ha funzionato
La Corte d’appello e il Tribunale stanno valutando eventuali «iniziative», ma l’avvocata Lepre ammette: «Qualcosa non ha funzionato. Al detenuto era applicato l’articolo 21 dell’ordinamento penale, cioè la possibilità di lavoro all’estero. Questo beneficio si può avere dopo aver espiato un terzo della pena. Questo programma parte dall’Amministrazione penitenziaria e poi è approvato, qualora vi siano i requisiti, dal magistrato di sorveglianza». L’obiettivo, come scrivono ancora dal Tribunale di Milano, è quello di provare a «garantire la rieducazione sotto il vigile controllo degli operatori», concludono Ondei e Oddone.
Il lavoro fuori dal carcere riduce le recidive
In effetti i dati Cnel-Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro mostrano che il lavoro esterno dei detenuti consente di abbassare le recidive, quindi il rischio di reiterare i reati, che altrimenti è molto elevato: 6 condannati su 10 hanno un precedente che li ha portati in cella almeno una volta, ma le probabilità di tornare a delinquere si stima che possano calare fino ad arrivare al 2% per chi viene reinserito lavorativamente. Per questo lo stesso Cnel ha attivato il programma “Recidiva Zero” in collaborazione con il ministero della Giustizia, con lo scopo di incentivare studio, formazione e lavoro negli istituti di pena.
L’esempio virtuoso di Bollate
Sono sempre le rilevazioni ufficiali a dire che quello di Bollate è il penitenziario con il più basso tasso di recidiva Italia, dove in media solo il 17% di chi sconta parte della pena in misura alternativa al carcere torna a commettere reati, dato che arriva al 5% per chi ha la possibilità di lavorare all’esterno delle case circondariali. «De Maria stesso tornava in cella a Bollate alla sera ed era descritto come un detenuto modello. Ora speriamo di non tornare indietro con i programmi di reinserimento dei detenuti, perché sarebbe una sconfitta», aggiunge Lepre, che sta lavorando a un aggiornamento della Guida per i diritti dei detenuti, realizzata con il tribunale di sorveglianza: «Un libro che spiega diritti e doveri, tradotto in inglese, francese, spagnolo, arabo, perché molti detenuti sono stranieri».
Il lavoro fuori dal carcere riabilita
Incentivare il lavoro, dunque, aiuta a riabilitare e finora si è andati in questa direzione, come testimoniano i dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: da giugno 2022 allo stesso mese del 2024 le persone detenute con un impiego esterno sono cresciute dell’11,3%, passando da 17.957 a 20.240. Di queste il 7,4% lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, mentre il +32,2% in ditte esterne. Ad aumentare è anche la formazione, con un +140% di corsi di istruzione e formazione professionale.
Cosa può non funzionare
«C’è il rischio che si enfatizzi il singolo caso», ammette dalle pagine di Avvenire Luciano Pantarotto, di Confcooperative – Federsolidarietà, a cui fa eco Patrizio Gonnella dell’Associazione Antigone: «Mettere in discussione le misure alternative al carcere per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso». «Sicuramente qualcosa non ha funzionato: il magistrato forse non ha neppure potuto incontrare De Maria, ma avrà letto certamente le carte, dalle quali sarà risultato che il detenuto aveva i requisiti per ottenere il beneficio del lavoro esterno al carcere. Quindi forse all’interno dell’istituto di pena si sono sottovalutati alcuni aspetti, magari perché non c’è stata la possibilità di analizzare a fondo il soggetto», ipotizza Lepre.
Come e quando si ottiene il lavoro esterno
«Se ci sono le condizioni previste, come l’aver scontato il minimo di pena contemplato dalla legge e l’aver trovato un possibile lavoro, viene presentata richiesta, ma è il detenuto che deve cercarsi una possibile occupazione, tramite amici, parenti o conoscenti. Come si può immaginare non è facile, perché il datore di lavoro può non gradire di avere un detenuto o di dover subire controlli da parte delle autorità – spiega Lepre – Poi sta al magistrato di sorveglianza concedere o meno l’affidamento in prova: io stessa ho procurato un lavoro a un detenuto pochi giorni fa, ma doveva consegnare i pasti a una mensa e dunque non era controllabile, quindi il magistrato ha inizialmente detto no. Solo dopo aver rimodulato la tipologia di lavoro con il confezionamento dei pasti stessi, è arrivato il parere positivo, perché il detenuto lavora in un posto fisso e a orari predeterminati».
Il percorso prima del lavoro esterno
«Dietro a un beneficio come il lavoro esterno c’è un percorso che precede l’autorizzazione e che accompagna il programma stesso. Per esempio, di solito le condizioni sono che il detenuto non frequenti esternamente altri detenuti, o che non esca di casa al mattino prima delle 7 e non rincasi dopo le 9 di sera – spiega ancora Lepre – Ma perché il progetto funzioni occorrono controlli, sia da parte degli organi di polizia, che accertino la presenza fisica del soggetto nel luogo di lavoro, sia da parte di operatori come psicologi e assistenti, che osservino eventuali problematiche. Ciò che può essere accaduto nel caso di De Maria è che non si siano colti segnali di questo tipo».
La sicurezza per i cittadini
Nella vicenda di Milano, però, De Maria appariva come persona dal comportamento corretto: «Ci sono molti esempi analoghi nel passato: Angelo Izzo, dopo aver ottenuto la semilibertà, mise in atto la strage del Circeo. Alcuni soggetti possono essere in grado di manipolare l’interlocutore con comportamenti ritenuti socialmente accettabili. Possono sembrare socialmente inseriti e, nel caso di De Maria, il fatto che l’hotel lo avesse assunto a tempo indeterminato dimostrerebbe che l’uomo fosse in grado di nascondere molto bene la sua personalità. È accaduto anche con Alessandro Impagnatiello (in carcere per l’omicidio della compagna Giulia Tramontano, NdR)», spiega Roberta Catania, Psicologa Psicodiagnosta Clinica e Forense.
Dove occorre intervenire
«De Maria aveva commesso lo stesso tipo di reato in precedenza, un omicidio brutale ai danni di una donna, quindi è chiaro che ci fosse una disfunzionalità nella personalità che andava mesa sotto attenzione. Inserirlo in un contesto come quello di una reception di un hotel, che favorisce le relazioni, forse avrebbe necessitato di maggiori controlli. Non significa negare le concessioni, come la possibilità di un reinserimento sociale, di sconti di pena o permessi, ma certamente accompagnarlo con le dovute valutazioni che sia garanzia di sicurezza per tutti i cittadini», sottolinea Catania. «Purtroppo il Governo ha puntato sullo stanziamento di fondi per aumentare l’organico della polizia penitenzia, ma non altrettanto degli operatori all’interno delle carceri, come gli psicologi, ecc. A Napoli, per esempio, possono passare anche 6 mesi tra un colloquio e l’altro con lo psicologo: occorrerebbe mettere gli operatori nelle condizioni di lavorare meglio nelle carceri, altrimenti tutti gli sforzi rischiano di venire vanificati», conclude Lepre.