Nell’immaginario collettivo, la nascita di un figlio rappresenta un momento di felicità e realizzazione. Tuttavia, per un numero crescente di donne italiane, il parto si trasforma in un’esperienza carica di dolore, frustrazione e, in alcuni casi, di vera e propria violenza. A rivelarlo è una recente indagine condotta dalle Università di Padova, Bologna e Milano-Bicocca, nell’ambito del progetto «Forties», finanziato dal PNRR, che si occupa di maternità in età avanzata. Lo studio ha coinvolto 5mila donne di età compresa tra i 25 e i 45 anni, tutte madri di almeno un bambino tra i 3 e i 10 anni. Il dato più significativo emerso è che il 43% delle intervistate ha descritto il proprio parto come un’esperienza traumatica.

Violenza verbale e fisica: cosa succede in sala parto

Le forme di cosiddetta «violenza ostetrica» si presentano in molteplici modi. Si va dai commenti offensivi – come «non sai spingere» o «smettila di lamentarti» – a pratiche mediche eseguite senza consenso o senza anestesia. Il 33% delle donne che hanno partorito per via naturale ha dichiarato di aver subito un’episiotomia senza alcuna forma di analgesia, mentre al 32% è stata praticata la rottura artificiale delle membrane. Inoltre, il 15% delle partorienti non ha ricevuto alcun trattamento per alleviare il dolore. Per quanto riguarda i parti cesarei, emerge un altro dato problematico: il 36% delle donne sottoposte a un cesareo d’urgenza e il 53% di quelle che hanno avuto un cesareo programmato non hanno potuto essere accompagnate da una persona di fiducia.

Mancanza di assistenza e supporto nel post-parto

Anche dopo la nascita del bambino, molte donne segnalano carenze gravi nell’assistenza. Una su tre afferma di aver ricevuto istruzioni insufficienti sull’allattamento, e la stessa percentuale dichiara di non aver avuto alcun aiuto per attaccare il neonato al seno nei primi momenti. Il 28% ha vissuto con disagio i ritardi nell’inizio dell’allattamento, mentre il 25% delle madri si è sentita ignorata o sminuita nel manifestare il proprio dolore. Tutto ciò contribuisce a costruire un’esperienza negativa che, in molti casi, porta le donne a scegliere di non affrontare un secondo parto.

Un problema diffuso in tutta Italia

La diffusione della violenza ostetrica varia leggermente da una zona all’altra del Paese, ma resta un fenomeno radicato ovunque. L’episiotomia viene praticata nel 25% dei parti naturali, con maggiore incidenza al Nord. La sutura senza anestesia è una realtà per il 14% delle donne, distribuita uniformemente tra le diverse aree geografiche. Gli insulti verbali colpiscono in modo particolare il Centro e il Sud Italia. In Centro, il 10% delle donne si è sentito dire «non sei capace di spingere», mentre la frase «smettila di lamentarti» è stata rivolta al 13% delle partorienti a livello nazionale, con picchi del 15% nel Meridione e nelle Isole.

Una questione culturale ancora irrisolta

Per Alessandra Minello, sociologa dell’Università di Padova e coordinatrice del progetto «Forties», la violenza ostetrica riflette una visione patriarcale ancora profondamente radicata. «Le donne in travaglio vengono spesso considerate incapaci di decidere per sé stesse – ha spiegato -. Ogni resistenza alle indicazioni del personale sanitario è vista come irresponsabile. Questo atteggiamento legittima comportamenti coercitivi, presentati come interventi per la salute del feto, ma che in realtà annullano l’autonomia della donna». Si tratta quindi di una dinamica di potere e controllo, che trasforma il corpo femminile in un oggetto da gestire, piuttosto che riconoscere alla donna il ruolo centrale nel momento della nascita.

La necessità di un cambio di paradigma

Per contrastare efficacemente questo fenomeno, è fondamentale intervenire su più fronti. In primo luogo, è necessario formare adeguatamente il personale sanitario, affinché impari a coniugare competenza tecnica e ascolto empatico. È, inoltre, urgente promuovere la cultura del consenso informato e del rispetto della dignità della paziente in ogni fase del parto. Le strutture ospedaliere devono dotarsi di strumenti per monitorare e prevenire gli abusi, offrendo spazi di ascolto e supporto alle donne che segnalano comportamenti inappropriati. Ma serve anche un cambiamento più profondo, che metta in discussione l’intero sistema di assistenza alla nascita e restituisca alle donne il diritto a vivere il parto come un evento personale, sicuro e rispettoso.