Così ci siamo salvate dal nostro destino di spose bambine

L'ultimo caso è quello di Menoona Safdar, riportata in Pakistan contro la sua volontà nel 2017. Per tornare in Italia ha scritto alla sua vecchia scuola e, dopo più di un anno, finalmente è in viaggio verso casa. Aiutare queste giovani donne è difficile, ma si può. Lo abbiamo visto nella sede dell’associazione italiana che offre loro protezione e rifugio

Menoona Safdar ritorna in Italia, finalmente

Finalmente è arrivata la buona notizia. Il Ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha infatti dichiarato che Menoona Safdar, la giovane donna 23enne che era stata riportata con l’inganno in Pakistan dalla sua famiglia, è in viaggio verso l’Italia. La Farnesina non rilascia informazioni aggiuntive – «Non possiamo aggiungere altro né sul volo né sulle trattative che sono state fatte per arrivare al rimpatrio», si legge infatti nella nota ufficiale – nel tentativo di proteggere Safdar e assicurarle la sicurezza necessaria per ricominciare la sua vita lì dove ha sempre immaginato il suo futuro. La complicata vicenda della ragazza era iniziata nel 2015, quando il padre l’aveva obbligata a lasciare la scuola (Safdar all’epoca frequentava la quarta superiore a Cesano Maderno, in provincia di Monza) contro la sua volontà, fino a che, nel luglio del 2017, non era stata riportata in Pakistan con la scusa di una vacanza di famiglia.

Una volta arrivata lì, però, i genitori le hanno sequestrato tutti i documenti italiani, impedendole così di ripartire. Come riportato da La Repubblica, Safdar ha pensato allora di scrivere una lettera di aiuto alla sua vecchia scuola «Vi prego, aiutatemi. Mi hanno preso tutti i documenti e mi hanno lasciata qui». La scuola, ricevuta la lettera, ha denunciato l’accaduto ai carabinieri e alla procura di Monza. Il caso è poi passato nelle mani della prefettura di Monza e Brianza perché arrivasse al ministero degli Esteri e all’Interpol. In una telefonata con l’Ansa, Sadfar ha raccontato di vivere ora con un uomo conosciuto in Pakistan, relazione che però la sua famiglia non accetta: «Ora vivo con lui ma i miei genitori non vogliono che ci stia insieme perché la cultura nel nostro Paese non permette alle giovani di scegliere con chi stare. Ho provato a chiedere aiuto alla mia ambasciata ma non mi hanno ascoltata. Vi prego, voglio tornare in Italia, è lì che vedo il mio futuro». E ora, finalmente, potrà viverlo.


Una storia che accomuna tante giovani donne

Zoya è scappata senza voltarsi, con un solo cambio di vestiti nel sacchetto di plastica per non dare nell’occhio. Amina, che adesso sta seduta accanto a lei ma ancora fatica a sostenere lo sguardo degli sconosciuti, racconta che avrebbe voluto portare sua madre con sé, ma non ha fatto in tempo. Nour, prima di fuggire, aveva addirittura tentato il suicidio perché, orecchiando una conversazione su Skype, si era accorta che stava per essere data in moglie a un suo cugino. È questo che hanno in comune Zoya, Amina e Nour: prima la volontà arcaica delle famiglie di obbligarle a sposare un uomo scelto da altri, poi la necessità di cominciare una nuova vita lontano da casa.

Già, ma quale casa? I genitori vengono da Pakistan, India e Afghanistan. Loro, però, si sentono italiane: dell’Italia hanno l’accento, qui sono nate o si sono trasferite da piccole. Le difficoltà di orientamento sono le prime da curare per i volontari di Trama di Terre, onlus di Imola nata nel 1997, l’unica in Italia ad avere un percorso ad hoc per aiutare le vittime di matrimoni forzati. «Iniziamo spiegando alle ragazze che ciò da cui si sono allontanate non è una semplice tradizione, ma una violazione di diritti umani» spiega la presidente Tiziana Dal Pra. «Parlare di culture differenti equivarrebbe a lavarci la coscienza. Serve un’alleanza tra donne: in Italia abbiamo fatto grandi battaglie contro il delitto d’onore, ora il fronte caldo è questo».

Sono costrette a una vita blindata

Il tempo per intervenire c’è: da piccole, di solito, le spose bambine vengono “solo” promesse, quasi sempre a un uomo del Paese d’origine. Ma è dopo i 16 anni che sono riaccompagnate lì, spesso con la scusa di un parente morto, per celebrare le nozze con qualcuno che non hanno mai visto. Nel mezzo, ci sono anni di vessazioni che si faticano a riconoscere prima delle estreme conseguenze. Quando Awa, 17 anni, si è sfilata l’hijab, le operatrici hanno notato ciocche tagliate o rasate a zero: «Sono stati i miei genitori, per impedirmi di togliermi il velo mentre ero a scuola. Mio fratello in realtà non voleva neppure che la frequentassi, perché avrei conosciuto dei maschi». Un’altra ragazza racconta di aver ricevuto il permesso di svelarsi durante le lezioni, ma a caro prezzo: «Una volta arrivata a casa, non potevo più uscire ed ero costretta a lavare i piedi di papà e dei miei fratelli per “espiare”. In 16 anni di vita ho visto la città dove vivo 2 volte, e sempre accompagnata».

Sono racconti più frequenti di quanto immaginiamo fra le appartenenti ad alcune comunità straniere: c’è chi ha abbandonato il sogno di frequentare il liceo artistico perché, dipingendo statue nude, sarebbe arrivata impura al matrimonio secondo i genitori, fondamentalisti musulmani; chi memorizzava i compagni maschi con nomi femminili sulla rubrica del cellulare e chi di telefoni ne possedeva 2, uno da mostrare in casa e uno per comunicare liberamente; chi troncava di colpo con il fidanzato salvo poi supplicare il suo aiuto dopo la partenza improvvisa. Si è salvata così, il mese scorso, un’altra giovane italo-pakistana, presa in consegna dalla nostra ambasciata a Islamabad dopo che era riuscita ad avvisare via WhatsApp le amiche di essere tenuta immobilizzata a casa di parenti in attesa del matrimonio combinato per lei.

Fanno fatica a ricominciare

«Queste ragazze sono nate e cresciute in Italia, ma non esiste una legge che le protegga in modo specifico dal matrimonio combinato, come invece accade in 8 Paesi Ue» osserva Alessandra Davide, responsabile del centro antiviolenza di Trama di Terre. «Alcune di loro ci contattano direttamente. In altri casi sono i servizi sociali a segnalarci situazioni critiche. Insieme decidiamo ogni dettaglio della fuga: di solito le facciamo uscire di casa con una scusa. Mi è capitato di fingermi maestra per avvicinare le più piccole, professoressa o medico per portare via le più grandi». Le ragazze trascorrono qualche tempo qui, dove un cortile accogliente e alcune stanze color pastello sono lo sfondo dell’azione di 114 volontarie, che organizzano anche corsi di lingua, diritto, prevenzione contro le violenze domestiche e non.

Poi vengono trasferite in case sicure, delle quali pochissimi conoscono l’indirizzo, in attesa di cominciare una nuova vita, altrove e con un altro nome. Raccontano le operatrici che la fase più difficile è proprio questa: dover recidere ogni legame con una famiglia che, pur dispotica, è stata spesso l’unica interfaccia, e contemporaneamente guadagnare nuove consapevolezze. «Sono e resto musulmana: non credo che avere rifiutato di sposare uno sconosciuto mi renda meno vicina a Dio» dice oggi Zoya, esibendo la sua gonna sopra il ginocchio mentre beve un cappuccino. «Io vorrei imparare a nuotare» conclude Nour. Per lei, che aveva cercato di togliersi la vita annegandosi, non c’è nulla di più bello.

I numeri

12 milioni Le ragazze obbligate ogni anno a contrarre matrimonio con uomini, spesso più grandi di loro, in tutto il mondo. «Purtroppo mancano dati certi per quanto riguarda il nostro Paese» segnala Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef Italia. 50 Le giovani aiutate da Trama di Terre negli ultimi 5 anni. Pakistan, Marocco, India, Egitto e Tunisia sono i 5 Paesi di origine più frequenti.

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