Daria Bignardi

Daria Bignardi: Ogni prigione è un’isola

Da oltre 30 anni Daria Bignardi partecipa a progetti di sostegno per i detenuti. Ora ne parla in un memoir caldo e dolente, intitolato "Ogni prigione è un’isola". «Perché è un mondo nascosto al resto del mondo. Dove però hai davanti agli occhi la vita vera»

«Ma cosa significa il carcere per lei?». Lo chiedo a Daria Bignardi prendendo in prestito le prime battute del suo nuovo libro: Ogni prigione è un’isola (Mondadori). Un libro caldo e dolente, «che ha vita e luce» dice, in cui la giornalista e scrittrice racconta delle sue visite a San Vittore e in altre carceri italiane. «“Sono un Settantotto”, come si dice nel gergo della galera: ho il permesso per entrare a San Vittore “allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro reinserimento nella vita sociale”» scrive.

Daria Bignardi: cosa significa il carcere per lei

Ma quindi cosa significa il carcere per lei? Glielo domando di nuovo per capire la molla che l’ha guidata, viaggio dopo viaggio, pagina dopo pagina. Che l’ha portata a scrivere il libro sull’isola di Linosa, tra mare e natura, senza sbarre né pareti umide. «Come dico all’inizio al dottor C., l’ho capito scrivendo perché il carcere è una di quelle cose che è entrata presto nella mia vita, come se fosse sempre stata sullo sfondo» risponde. «Ci abitava accanto la mia migliore amica delle elementari, andavo a giocare da lei in via Piangipane a Ferrara. Poi, quando avevo 19 anni, il mio ragazzo – erano gli anni famigerati della droga – ci è finito per un paio di mesi. Più tardi ho iniziato una corrispondenza con un condannato nel braccio della morte negli Usa, Scotty. Anche lì, per caso: mi sembrava una cosa da matti, così come mi sembra oggi, che esista la pena di morte».

E dentro al carcere quando è entrata per la prima volta?

«Quando abitavo in via San Vittore a Milano. Lavoravo a un programma tv che si chiamava Tempi moderni e avevo pensato di coinvolgere un gruppo di detenuti a parlare dei temi che poi si trattavano in trasmissione. Così, eccezionalmente, ebbi il permesso di entrare il lunedì per girare. Allora a San Vittore c’erano detenuti con condanne lunghe e definitive, adesso ci sono i detenuti in attesa di giudizio e una cosa così non sarebbe possibile».

Che rapporto avevate creato?

«Era un gruppetto di uomini di cui facevano parte diversi personaggi di cui parlo nel libro e con cui sono rimasta in contatto: qualcuno per fortuna è uscito, qualcuno è ancora in affidamento o in articolo 21 (il lavoro esterno, ndr), a qualcun altro manca qualche mese per uscire. Sono passati oltre 30 anni, Marcello per esempio oggi ne ha oltre 80, Tino 74, Sisto Rossi 67. Conobbi a San Vittore anche Pino Cantatore, che è diventato un imprenditore illuminato: all’interno del carcere di Bollate è riuscito a creare un’impresa sociale che dà lavoro ai detenuti con un call center che svolge attività di customer care».

Com’è il carcere per Daria Bignardi

Ma com’è il carcere?

«Non posso dire che sia un luogo che conosco, perché per conoscerlo davvero bisogna viverci o lavorarci. Io non ci vado anche per lunghi periodi».

C’è tanta sofferenza?

«Sì, da cui bisogna proteggersi. Quelli che ci lavorano, gli educatori, gli psicologi, hanno gli anticorpi, sanno come si fa. Io invece lavoro a progetti. Prima c’è stato il programma, poi su Donna, la rivista che dirigevo, avevamo creato una rubrica di recensioni tv che si chiamava Al fresco. Dopo ho iniziato a cantare nel loro coro e a fare degli incontri nel cosiddetto reparto “La nave”. Da questa esperienza a San Vittore ne sono nate altre».

Il carcere è un mondo parallelo di cui sappiamo poco.

«Sicuramente è un luogo pieno di storie. In grandissima parte storie disgraziate: c’è chi ha già avuto magari il padre o il nonno dentro, chi in Italia non ha nessun legame… Negli ultimi 10 anni i problemi si sono acuiti, ci sono più poveri, più persone con problemi psichiatrici. È come una piccola cittadina di circa 60.000 persone che vivono dietro quelle mura, seguendo delle regole che sono naturalmente del tutto diverse da quelle di noi liberi, nascoste dal resto del mondo. È però, come scrivo, come se fosse il mondo vero, dove hai davanti agli occhi tutti i problemi reali delle persone, i sentimenti primari, i bisogni essenziali. Ciò che ha a che fare con la salute, coi legami familiari, con le difficoltà, con la povertà, con le dipendenze. A parte un personaggio di cui parlo nel libro, io non ho avuto contatti con grandi criminali o esponenti di famiglie mafiose».

60.000 detenuti è un numero altissimo.

«Come mi ha spiegato Luigi Pagano, il direttore di carcere di cui parlo a lungo, di 60.000 dovrebbero stare dentro davvero solo 6.000».

Qual è l’alternativa alla prigione?

Ma qual è l’alternativa?

«La recidiva è altissima tra la popolazione carceraria, quasi del 70%. Ma tra chi ha accesso a programmi di inserimento nel mondo del lavoro e a lavoro qualificato crolla al 20%. Il carcere è un luogo pieno di problemi, ma non è certo colpa del direttore, del comandante o dell’agente, che possono essere bravi o meno bravi. Sono problemi strutturali. Non sono un’attivista né ho avuto un approccio giornalistico al problema. Posso solo dirle che frequento da tanti anni questo mondo e quello che vedo è che molte persone che oggi sono lì non ci dovrebbero stare per tutta una serie di motivi».

Quali?

«Magari sono in carcere per piccoli reati che si sono sommati, perché non hanno avuto un avvocato abbastanza bravo o la possibilità di pagarne uno competente, perché sono stati abbandonati dalla famiglia…».

Il tasso di suicidi è aumentato.

«E quest’anno è iniziato in modo tragico: finora sono 24. Ha a che fare col sovraffollamento, con la mancanza di strutture e personale per aiutare le persone in sofferenza».

Come vivono le donne dentro alla prigione?

E le donne?

«Hanno storie tristissime. Perché il carcere non è pensato per loro, che sono solo il 4% dei detenuti. Quasi sempre ci finiscono per colpa di un uomo, prostituzione, piccola criminalità… E, a differenza degli uomini che fuori hanno famiglie e mogli che si occupano di loro, rimangono sole, abbandonate, ripudiate. E, quando hanno figli, soffrono enormemente per loro».

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