
«E quant’è bello chiagnere!» A un certo punto dice proprio così, in napoletano, citando Sophia Loren nei panni di Filumena Marturano in Matrimonio all’italiana e confessando un piacere incontrollabile per le lacrime, una gioia purificatrice e catartica nel versarle, che non ti aspetteresti da un’attrice nota soprattutto per i ruoli brillanti. Anche se in verità ne ha esplorati molti altri, in quasi 20 anni di carriera. Compreso quello di una madre annientata per la morte di un figlio che Anna Foglietta interpreta nel film di Paolo Costella, Storia di una notte, appena uscito nelle sale.

Storia di una notte, l’ultimo successo di Anna Foglietta
Anna Foglietta è così, multidimensionale. Una jam session di emozioni. Un pentagramma di umanità, fatto di alti e di bassi, di luci e di ombre, che fa vibrare senza remore. Si vede che sta a proprio agio in tutti le parti che ha scelto di vivere – madre, moglie, artista, attivista – ma non fa mai la ruota. Non si compiace. Usa vocaboli che la gente non usa quasi più. Cose tipo etica, responsabilità, rispetto, dignità. Ma senza pose da intellettuale e con una capacità di calarle nel reale che ti verrebbe da chiederle se non ha voglia di candidarsi in politica.
Il senso civico dice che l’ha imparato da ragazza, scendendo in piazza e prefigurando rivoluzioni possibili. Quello del dovere per necessità. E anche se non è stato sempre facile gestirlo, senza non sarebbe arrivata fin qua. «E dove sono arrivata?» mi chiede scherzando. Storia di una notte è solo l’ultimo dei successi di Anna Foglietta. Inutile farle il ripasso delle commedie cult (Tutta colpa di Freud, Perfetti sconosciuti, Noi e la Giulia), le serie impegnate (Storia di Nilde, Alfredino), le 4 nomination ai David di Donatello e i 2 Nastri d’argento. Sa bene quanta strada ha fatto e come l’ha percorsa, senza sconti. Per questo sintetizzo: «Lontanissimo». Aspetto che si sieda, dopo aver danzato davanti all’obiettivo sulle note di Achille Lauro con la naturalezza di chi abita con piacere e spensierata consapevolezza il proprio corpo, e poi comincio.

Anna Foglietta torna con Storia di una notte
Storia di una notte parla di una famiglia molto affiatata, che si disgrega per la perdita di un figlio. Mi sono sempre chiesta come si sopravvive a un lutto simile. Lei come si è preparata per la parte?
«Non so se si sopravvive. Ma penso che la vita sia drammaticamente sempre più forte della morte e che a un certo punto, malgrado gli infiniti e dolorosi ricordi, si trovi un punto di equilibrio, un nuovo modo per stare al mondo che permette di andare avanti. Riguardo al mio lavoro sul personaggio, è stata un’esperienza abbastanza curiosa. Perché il film racconta di un nucleo familiare molto risolto, molto tranquillo, con tre figli, in tutto simile al mio. Anche io ho un marito che amo, tre figli, tra l’altro proprio due maschi e una femmina. Per cui un po’ ho attinto a quello che conosco.
Spesso gli attori per prepararsi attuano una sorta di transfert. In questo caso mi è stato utile anche pensare a persone a me vicine che hanno vissuto un trauma analogo. Mi sono immaginata, da madre, cosa si prova a perdere un primogenito in modo così violento. Soprattutto avendo alle spalle una struttura familiare molto borghese. Un dettaglio non da poco».
Perché?
«Perché la morte è un tabù, la rimozione del dolore quasi un dogma nella nostra cultura. Non sta bene mostrare la sofferenza. La mamma della protagonista di Storia di una notte, addirittura cancella la morte del nipote come fosse una macchia. Questo è stato l’aspetto forse più difficile per me da affrontare. Perché io credo invece che ci sia assoluta dignità nel manifestare ciò che si prova e che ci debba essere una sorta di coerenza tra ciò che si sente e ciò che si è. A esasperare questa “dark side” nel film è la divisione della storia in due momenti: prima la famiglia felice, poi il pozzo nero in cui tutto precipita».

Storia di una notte, il racconto di una famiglia
Anche a causa di un secondo incidente, che mette a dura prova la tenuta del nucleo. In questo momento di grandi incertezze, la famiglia è ancora un modello che regge?
«Dipende da che si intende per famiglia. Per me è un’idea di umanità. Quindi tiene dentro anche gli amici, le persone che frequentano la mia casa, la tata. Più il sistema è largo, più i nostri figli possono crescere con riferimenti eterogenei. Il vecchio modello di famiglia è totalmente tramontato, fallito. Perché al di là dell’amore, che cura e che protegge, si porta dietro tutto un bagaglio di proiezioni e aspettative che fanno solo danni».
Bisogna lasciare i figli liberi di crescere?
«Sì, più li lasciamo stare e meglio è. Ma è la cosa più difficile da fare per un genitore. Anche perché ci scontriamo con questo maledetto mezzo che è la rovina dei nostri ragazzi: il telefonino.
Nessuno mi toglie l’idea che la maggior parte dei disagi del nostro tempo derivino dal confronto costante con i modelli vincenti che troviamo sui social. Persino su di me, che sono una donna realizzata e ho una personalità – credetemi – molto risolta, vedere ogni giorno qualcuno che è più bravo di me, più performante, ha un effetto negativo. Immaginate su un ragazzo con un’identità ancora in formazione».
E qual è l’antidoto?
«Noi abbiamo cercato di limitare i danni concedendo l’uso dei social solo dopo i 14 anni. E poi non mi vergogno di dire che “bonifico” il telefonino dei miei figli. Se qualcosa non mi piace, spiego perché non va bene. Io e mio marito vogliamo che facciano almeno un uso consapevole del mezzo».
Da Storia di una notte alle radici di Anna Foglietta
Lei che famiglia ha avuto?
«I miei genitori erano persone semplici, mi hanno lasciato fare quello che desideravo e mi hanno trasmesso una grande cultura del lavoro e dell’onestà. Da mia mamma, che è nata a Napoli nel ’41, dunque ha vissuto nel pieno dei bombardamenti, ho imparato il valore della resilienza. Per lei non c’erano problemi, solo soluzioni. Un bell’insegnamento, ma anche una grande responsabilità. Perché a volte bisogna pure saper stare nei problemi, non scansarli. Viviamo in un momento storico in cui viene trasmesso il valore della positività. Ma la vita, l’essere umano sono fatti anche di ombre. Per questo è importante avere una connessione profonda con i nostri vuoti, con le nostre piccole depressioni. I momenti down sono fisiologici, purtroppo nessuno ci insegna ad accoglierli, a navigare in quel magma di inquietudine che poi ci fa godere della luce quando risaliamo verso la vetta. Il malessere nasce da questa negazione».
E lei ne ha avuti di momenti down?
«Sì, ma a casa non se ne parlava. Non c’era l’abitudine allora a trattare questi temi».
Anna Foglietta: la mia adolescenza tra vitalità e tabù

Com’è stata la sua adolescenza?
«Bellissima, ero una ragazza estremamente vitale, interessata all’arte, al teatro. E anche molto attratta dalla politica. Erano tempi in cui ancora, manifestando, si pensava di potere cambiare il mondo.
Poi però la mia famiglia ha avuto un piccolo problema e io mi sono sentita in dovere di dare una mano. Ho cominciato a lavorare, mi sono caricata di responsabilità troppo grandi per la mia giovane età e questo ha creato una specie di disallineamento tra ciò che volevo e ciò che dovevo fare. Il senso del dovere mi ha fatto molto male. Ho iniziato a soffrire di attacchi di panico».
E come li ha superati?
«Non li ho superati, però ho imparato a non averne paura. Posso parlare solo per la mia esperienza, ma con il tempo sono anche riuscita a dargli valore, perché hanno contribuito a farmi diventare la persona che sono. Senza, forse, non avrei cercato rifugio nell’arte, non avrei usato il teatro come mezzo per farmi vedere. In famiglia, come dicevo, anche se sono stata molto amata, non c’era spazio per l’emotività. Nessuno mi ha mai chiesto: tu chi sei? Cosa desideri?».
E lei lo chiede ai suoi figli?
«Sì. Anche se loro si schermiscono e mi dicono: “Che palle, mamma!”. Però credo siano domande importanti, che nessuno ci fa. E a cui siamo abituati a dare risposte sbagliate. Se uno ci chiede “chi sei”, gli diciamo che lavoro facciamo, come se fosse quello a connotare la nostra identità. La sfera del desiderio non la tocchiamo neanche. Ma è quella che ci dice davvero cosa vogliamo essere e cosa ci fa stare bene. Forse, anche per questo faccio l’attrice. Per pormi il quesito».
E per cos’altro?
«Credo che il mio essere artista abbia una funzione sociale, politica. E che si possa fare la rivoluzione, come diceva Gramsci, in tanti modi. Anche con la parola. Quando sono a teatro e si crea una connessione speciale col pubblico, io sento che sto facendo qualcosa di buono. Lo scambio, l’ascolto per me sono vitali. Una cosa che mi ha sempre colpito è che sui social non ho mai ricevuto messaggi di odio. È come se si fosse creato, con chi mi segue, una sorta di rispetto reciproco, che mi lusinga e mi gratifica. Non perché mi pettina l’ego, ma perché mi dimostra che l’onestà con cui faccio le cose viene capita e apprezzata».
Anna Foglietta: in Storia di una notte sono una madre (come nella vita vera)
Passiamo al “mestiere” di madre. Ha tre figli, dai 10 ai 14 anni. Preadolescenza piena. Cosa la spaventa di più?
«La sfera sessuale. Siamo in un tempo in cui c’è un uso smodato di pornografia e una scarsissima pratica sessuale. L’eros, il desiderio sono concetti che i ragazzi non conoscono perché tutto è troppo accessibile. E questo crea confusione, ma anche derive pericolose. Abbiamo scoperto da poco il mondo degli incel grazie alla serie Adolescence. Ma i gruppi di “celibi involontari”, cioè maschi etero perlopiù bianchi che rivendicano il diritto a fare sesso ma odiano le donne, esistono da tempo. La loro frustrazione verso il genere femminile che non li considera può essere potenzialmente esplosiva».
La cronaca ci dice che sempre più spesso gli autori di femminicidio sono giovani uomini che non accettano di essere rifiutati. Pensa sia utile insegnare a gestire le emozioni, sia a scuola che in famiglia?
«Sono temi su cui mi interrogo di continuo, facendo parte del Comitato artistico della Fondazione Una Nessuna Centomila, fondata da Giulia Minoli con la presidenza di Fiorella Mannoia. Rendere obbligatoria l’educazione all’affettività è una priorità assoluta, perché siamo fanalino di coda in Europa. Poi certo, c’è la famiglia. Ma siamo realisti: quali genitori sono in grado di capire e affrontare un problema legato all’affettività quando hanno difficoltà economiche, stanno fuori tutto il giorno per lavorare e tornano la sera distrutti, magari senza neanche amarsi più? È nostro dovere aiutarli. E possiamo farlo solo attraverso la scuola. È una questione di responsabilità politica».
È più difficile educare i ragazzi su questi temi?
«Dobbiamo fare un lavoro culturale enorme. Quando mia suocera invita mia figlia a fare i biscotti mi arrabbio e le chiedo perché solo lei, perché non anche i nipoti. A volte mi rendo conto di essere pesante, ma bisogna lavorare anche sulle piccole cose. E soprattutto sui maschi».
Come?
«Aiutandoli ad aprirsi. Se chiedi a qualsiasi uomo, dagli 0 ai 99 anni, di parlare di emozioni, non è in grado. Persino quelli più aperti ed evoluti non ne sono capaci. Segno che non è solo un tema di patriarcato, ma proprio di difficoltà a tirar fuori ciò che sentono. Noi siamo abituate a farlo fin da piccole, per questo ci hanno ribattezzato “sesso debole”. Negli anni ’70 abbiamo persino inventato i gruppi di autocoscienza. Oggi quei gruppi dovrebbero farli gli uomini».
Anna Foglietta: di stereotipi e tempo che passa
Le conquiste femminili hanno un po’ spiazzato i maschi, temono le donne forti. Suo marito si sente mai adombrato dalla sua fama?
«Mio marito è una persona straordinaria, sotto tanti punti di vista, però è vero quello che dice. Io, per via del mio lavoro, vivo sotto i riflettori. Lui capisce, perché è un uomo intelligente, ma non è facile. Anche lui ha le sue fragilità. Però da questo si riconosce la forza di una coppia. Senza il suo supporto non avrei fatto tante cose, come attrice e come attivista. È la prima persona che crede in me. Dovrei ricordarmi di ringraziarlo più spesso per questo».
C’è competizione tra donne nell’ambiente del cinema?
«C’è più tra gli uomini. Forse per quell’atteggiamento un po’ muscolare che si diceva prima. Tra le donne c’è solidarietà e vicinanza. Personalmente ho tante colleghe con cui ho anche un buon rapporto di amicizia».
È vero che dopo una certa età le attrici vengono messe in panchina?
«È vero che col tempo ti propongono ruoli sempre più noiosi e stereotipati. I più interessanti, personalmente, mi sono arrivati tra i 30 e i 40. Come ti avvicini ai 50, c’è questo campanello della menopausa che mette tutti in allarme».
Lei sente la pressione del tempo che passa?
«A giorni. A volte mi faccio i complimenti davanti allo specchio, altre volte mi vedo pessima. Ma le pressioni vengono da fuori non da dentro. Fosse per me, per l’energia che ho, per la freschezza e la voglia di fare con cui mi sveglio al mattino, al problema degli anni che passano non ci penserei proprio. Sono gli altri che ti fanno sentire vecchia perché non rispondi a certi modelli di perfezione che ti vogliono giovane e levigata a tutte le età. E per quanto si stia facendo molta narrazione sulla bellezza naturale, quei diktat nel profondo hanno sempre la meglio».

Anna Foglietta: l’empatia è un valore enorme
Nel suo percorso di attrice, su cosa ha puntato di più, oltre al talento? La bellezza, la determinazione, l’ambizione?
«L’ascolto. Di me stessa e degli altri. L’empatia per me è un valore enorme. Ed è stata fondamentale nella mia professione».
È questa attitudine all’empatia, che l’ha portata a fondare la sua Onlus?
«Every Child is My Child è nata nel 2017, col supporto di alcuni colleghi, dal desiderio di garantire i diritti fondamentali ai bambini che abitano in zone a rischio. Venivo da un’esperienza di ambassador per un’associazione umanitaria e sentivo che dovevo fare di più. Era il periodo delle armi chimiche nel conflitto in Siria, certe immagini di minori mi straziavano. Abbiamo iniziato finanziando una scuola in un campo profughi in Turchia, che fino a oggi ha formato più di 500 ragazzi, diventando presidio culturale anche per le loro famiglie. Ora stiamo lavorando a un ospedale pediatrico oncologico in Cisgiordania, destinato ai piccoli palestinesi costretti a sottoporsi a cure mediche. E insieme all’associazione Soleterre daremo supporto psicologico a tutti i bambini vittime di guerra».
Una bella sfida. Ma come fa a far tutto? Tempo per sé?
«È tutto tempo per me. Perché faccio cose che amo».
Ultima domanda, d’obbligo: cosa desidera? Sorride spiazzata, ci pensa un po’, e poi risponde:
«Desidero trovare spazio anche per ridere. Perché altrimenti rischio di piangere un po’ troppo. Soprattutto in questi tempi così faticosi».