L’ho già detto e lo ridico: sono stata una bambina grassa. Una a cui non stava bene niente. Che provava disagio nel vestito della festa. Che si sentiva Fiona invece che Cenerentola, nella maschera da principessa, purtroppo prima che Fiona esistesse. Ho delle foto che lo documentano. Questo non mi ha impedito di essere anche una bambina felice. Allegra, spensierata, matta. Il dolore per i commenti cattivi dei compagni era acuto e tagliente, capace di rovinarmi le giornate, insuperabile nello scavare dentro di me, nel morbido burro del mio io in formazione, profondi solchi di insicurezza, ma non abbastanza forte da spegnere la mia fame di vita. Che era anche, ahimè, fame di cibo.
Il peso dell’infanzia e l’amore imperfetto di una madre
Mi piaceva mangiare. Solo da grande ho rinfacciato a mia madre il fatto di avermelo permesso. Ma ora so che non era colpa sua. È difficile imporre a un bambino di controllare l’alimentazione. Eppure lei si applicava. Mi faceva la fettina, mi portava a ginnastica. Più volte all’anno mi imponeva una visita dal pediatra “per fare il punto”. Ancora mi ricordo la faccia giudicante del dottore e la bilancia gigante su cui odiavo salire. Ho nelle orecchie il riverbero delle sue raccomandazioni, nella coscienza il mio sommesso obbedire. Mi consolavo con una Girella.
Essere sovrappeso in adolescenza: le mode e il buio delle diete
Il peggio è stato quando sono arrivata alle medie e poi al liceo. È allora che ho iniziato a sentire davvero l’ingrombranza intollerabile (e intollerata) del mio peso. I camperos non superavano la linea Gotica del polpaccio. I 501 si incagliavano sulle cosce e poi ballavano in vita, perché ancora non esisteva il “fitting” dei jeans. Il modello era quello e doveva star bene a tutti. Anche se calzava a pochissimi, perlopiù maschi. Meglio alla moda che comodi. Per fortuna esistevano le felpe. Enormi, coprenti, talebane. Così sono entrata nel tunnel delle diete. Barrette, beveroni, digiuno (totale, non intermittente). Aerobica e step per bruciare e sfiancarsi. Talvolta, vomitare. Non io, ma tante. Era fin troppo labile il confine tra la sana ricerca della corretta forma fisica e il burrone del disturbo alimentare. Quante ci sono cascate tra gli anni ’80 e ’90. Mi stupisce come io sia sopravvissuta. Ero abbastanza sazia d’altro, evidentemente, per non cedere alle lusinghe del corpo che scompare.
Specchi, figlie e riconciliazioni
Oggi che ho fatto pace, definitivamente, col mio corpo, e lo amo tutto, anche se nettamente più imperfetto di allora (se solo ci si guardasse con gli occhi di poi, a 13 o 20 anni, come ci si vedrebbe belle! Quanto magnifiche ci apparirebbero quelle carni sontuose e tremule che abbiamo disprezzato, floride e tese, golose come aspic in gelatina), rivivo in mia figlia le ansie di un tempo. Ritrovo nei suoi occhi il disappunto mentre si guarda allo specchio, la forza a cui si appella per fregarsene se un vestito non le cade come dovrebbe. Vorrei dirle che è bella, bella veramente. Senza bisogno dello sforzo d’immaginazione che ci mette per vedersi così, come ha imparato dalle campagne inclusive e dai social, sbandieratore di buoni principi e spacciatore di filtri spudorati. Una contraddizione in termini.
Com’è (davvero) essere sovrappeso ai tempi dei social?
Difficile essere adolescenti sovrappeso nei tempi della sovraesposizione. Del body positive di facciata, che ha sdoganato la 46 ma non la libertà di essere davvero come si vuole, autorizzandosi a ingrassare e dimagrire senza doversi giustificare. O difendere. O farsi manifesto di un principio di uguaglianza, che chiamano “diversity” ma ancora non si schioda dai corpi “non-conformi”. Ovvero dall’idea di un modello a cui tendere. Difficile anche essere genitori di un’adolescente sovrappeso, in un momento storico in cui, proprio in nome dell’inclusione, ogni messaggio può essere frainteso. Letto come un giudizio invece che un aiuto. «Se vuoi che dimagrisca, non ti piaccio». «Se non mi dici niente, non mi insegni a mangiare in modo sano». Ogni confronto è un campo minato in cui il cibo è solo un pretesto per dire altro, un espediente per misurare l’amore, l’approvazione, il senso di sé.
Parlare a una figlia adolescente senza ferirla
Come si parla a una figlia adolescente senza ferirla, giudicarla, offenderla, farla sentire inadeguata, ma senza abdicare al ruolo di guida? Senza strafare né minimizzare. Prendersi cura, ma con discrezione. Sgombrando il campo da ansie e aspettative, mettendo il “muto” a ciò che siamo state. Intanto io mi sono chiesta cosa avrei voluto sentirmi dire da mia madre, in quell’oscuro tempo di insufficienza e di goffaggine. Forse, niente. Bastava uno sguardo che dicesse: «Mi piaci». Ma a posteriori, si sa, si gioca facile.