«Quando non ci sarò più, capirete». Mia nonna ha passato la vita a ripeterlo. A mia madre, a me, a chiunque intorno a lei avesse la probabilità di sopravviverle. Il giorno in cui lei non fosse più stata lì ad aggiustare le nostre vite, diceva, avremmo realizzato quello che aveva fatto per noi e quanto le fosse costato. Non so se ci credesse e, di certo, il tono da melodramma non aiutava a prenderla sul serio. Eppure, aveva ragione: certe cose le capisci solo con il tempo, e una di queste è che le storie del rapporto tra una madre e una figlia non contengono mai una sola verità. Ognuna ha la sua, come in quei film in cui la stessa vicenda cambia a seconda di chi la racconta: non c’è inganno, ma punti di vista. Ed è lì, in quella distanza, che si accumulano le incomprensioni, le cose non dette e tutti quei sentimenti che gli anni fanno diventare alternativamente perdono o rancore.
Il rapporto madre-figlia: storie di un legame complesso e universale
È quello che ho pensato leggendo il nuovo libro di Concita De Gregorio, Di madre in figlia (Feltrinelli), la storia di tre donne – figlia, madre e nonna – che, cambiati i nomi e i caratteri, potrebbe essere la storia di tutte le linee matriarcali che si intrecciano nelle famiglie. Dove a turno ci si sente dare dell’egoista, dell’ansiosa, dell’irresponsabile, dell’ingrata, dove si ha l’incrollabile convinzione di conoscersi l’una con l’altra nel bene e nel male come mai nessuno potrà fare e si evoca un passato che è di tutte ma ognuna ha vissuto e ricorda a modo suo.
Il libro, come sempre quando si parla di conti aperti tra madri e figlie, gira attorno all’eterna questione del chi si prende cura di chi e dei ruoli che dovrebbero essere chiari e invece non lo sono. C’è Marilù, la nonna, che ha vissuto inseguendo la libertà. E c’è Angela, sua figlia, che in quella libertà si è sentita persa, tanto da convincersi che l’amore di una madre si misuri con la capacità di riparare i figli dagli urti della vita. E infine Adelaide, la nipote, super protetta eppure cresciuta piena di paure. Perché le colpe delle madri, si capisce leggendo, ricadono sulle figlie e ne segnano il percorso.
L’equilibrio fragile tra amore, colpa e libertà nel rapporto madre-figlia
Anche mia nonna Gina è stata una ragazza ribelle e libera, oltre che bellissima. Incapace di cedere alle convenzioni del suo tempo, aveva rifiutato la corte di molti e si era sposata a 31 anni, forse spinta dalla voglia di un figlio, ritrovandosi insieme madre e vedova a 33. A quel punto, piuttosto che un altro marito, aveva preferito trovarsi un lavoro e lavorando aveva conosciuto un uomo, separato e padre di due figli, di cui si era innamorata e con cui ha passato il resto della vita, infischiandosene del disappunto della sua famiglia e del bigottismo dell’epoca.
Mia madre è stata il centro del suo mondo e questo non è mai stato in dubbio. Il perimetro di quel mondo, però, era stata lei a disegnarlo, grande a sufficienza per non restare soffocata, e lo stesso vale per i ruoli di chi lo abitava. A Irene, la sua bambina, aveva assegnato il ruolo di figlia non di una donna forte e indipendente ma di una vedova dolente che non si poteva abbandonare o deludere. Inchiodandola così al ruolo di brava figlia che, anche da adulta, è stato per lei come la kriptonite per Superman.
Il club delle cattive figlie: storie di donne che cercano di tagliare il cordone ombelicale
Perché le colpe delle madri detonano sulle figlie con due sole possibili conseguenze: adeguarsi o ribellarsi. Diventare “brave” figlie o “cattive” figlie, destinate a convivere o con l’amputazione di parti di sé o con il senso di colpa. Due categorie distinte seppur ugualmente sofferenti, di cui la storia della letteratura e del cinema offre un’infinita casistica. Dalla bambina annientata di Mammina cara, versione cinematografica dell’autobiografia di Christina Crawford, figlia adottiva di Joan Crawford, a Debra Winger di Voglia di tenerezza che taglia i ponti con la madre Shirley MacLaine salvo poi tornare sui suoi passi nel momento più nero (si fa così, no?), passando per le diverse storie di Mothers and daughters del 2017: un esempio in cui identificarsi lo si trova senza difficoltà.
Molte ci riusciranno leggendo Il club delle cattive figlie di Vanessa Montfort (Feltrinelli), un esilarante giallo che mette insieme tre figlie – che si sentono cattive perché non riescono mai a sentirsi abbastanza brave – e le rispettive madri, tutte disfunzionali: una primadonna, una control freak, una perennemente in cerca di protezione. In queste storie sul rapporto madre-figlia ci sono mamme che si attaccano al telefono e chiamano in loop, figlie incapaci di tracciare dei limiti perché schiacciate dal senso di colpa, donne che decifrano i pensieri altrui ma non riescono a fare la cosa in sé più semplice: dirsi la verità. La propria verità, almeno. Perché? Non c’è una risposta buona, se non che farlo sarebbe un po’ come tagliare il cordone ombelicale del rapporto madre-figlia. Cosa che non riesce bene a nessuno: né alle figlie né, tantomeno, alle madri. Però ci si può provare. E abbiamo chiesto a quattro figlie di farlo per noi.
Tre storie in libreria che raccontano il rapporto tra madre e figlia oggi
Tre romanzi appena usciti esplorano il rapporto madre-figlia. Il club delle cattive figlie di Vanessa Montfort (Feltrinelli) è un giallo che esplora le dinamiche di dipendenza affettiva. Di madre in figlia di Concita De Gregorio (Feltrinelli) intreccia tre generazioni che provano a capirsi. Quelle due di Chiara Maci (Mondadori) racconta la storia di un madre che si ritrova a essere anche padre.
Quattro storie vere sul rapporto madre-figlia
Anna: essere una brava figlia, ma non libera
«Mia madre non c’è più e questo rende più facile parlare. Avrei potuto farlo prima, quando ancora poteva sentirmi, ma non so quanto sarebbe servito. Dopotutto lei aveva il dono di spegnere l’udito e sentire solo quello che voleva. È stata così tutta la vita. Non perché non mi volesse abbastanza bene, anzi. È che mia madre era una donna debole e, come in genere le persone deboli, salvava prima se stessa. Tante volte avrei voluto dirle: “Sostienimi, ripetimi che andrà tutto bene”. Ma lei quella forza non ce l’aveva e, di conseguenza, neanche io.
Mio padre mi incoraggiava, lei metteva zavorre a ogni mio passo per proteggermi dal mondo e proteggere se stessa dalla paura che potesse succedermi qualcosa.
Come quella volta che mi proposero di fare l’indossatrice – ai miei tempi le modelle le chiamavano così – e lei, senza indugi, disse di no. Non avrebbe potuto essere altrimenti: una donna della sua generazione che convive con la depressione e tutto quello che si portava dietro non avrebbe potuto essere diversa. Io, crescendo, ho trovato la mia strada, la forza di contare solo su me stessa. Ho fatto l’imprenditrice, ho guadagnato dei soldi, comprato case, vissuto senza mai dover dipendere da un uomo. Però figli non ne ho voluti: l’idea che un’altra persona dipendesse da me era difficile da sostenere. E poi temevo di finire vittima dell’ansia, come lei. È morta molto anziana. Negli ultimi anni non mi riconosceva più, ma io non ho mai smesso di prendermi cura di lei. Credo di essere stata una brava figlia, ma mai una donna libera».
Anna, 78 anni
Federica: tra complicità e ingombro emotivo
«Io sono stata una figlia anomala, e mia madre anche. Mi spiego: il problema non è stato trovare il coraggio di dirle le cose, ma avere l’incoscienza di dirle anche quello che avrei dovuto tenere per me. Si potrebbe chiamare complicità, in realtà era altro.
Io a mia madre ho raccontato cose che non avrei mai detto alle mie amiche e che forse non era giusto che lei sapesse, l’ho fatto perché mi fidavo. Finché c’è stata, il suo punto di vista sulla vita è stato il filtro con cui ho guardato me stessa e gli altri e questo mi ha aiutato a trovare il baricentro negli anni dell’adolescenza, il coraggio quando serviva, la sicurezza che qualsiasi cosa fosse successa l’avremmo aggiustata. Era la prima persona che chiamavo al mattino e l’ultima che sentivo la sera, la mia compagna di viaggio e di avventura, quella a cui raccontavo se avevo fatto sesso e con chi, dettagli compresi, e quella con cui facevo le litigate più furiose. Funzionava così e, per me, funzionava benissimo anche se, da fuori, non tutti capivano. Non so se sono stata una brava figlia. Di certo sono stata una figlia ingombrante e lei me lo diceva, sottolineando quanto rimpiangesse gli anni in cui avevo cambiato città per lavoro e in cui lei aveva potuto dedicarsi solo alle cose sue. Un periodo durato poco perché poi, nati i miei figli, l’ingombro si è moltiplicato per tre e lei ha retto il colpo alla perfezione. Me l’ha portata via il Covid, quando ancora di cose da dirle ne avevo tantissime. Ogni tanto la incontro di notte, nei sogni, e le parlo. Lei, invece di rispondere, ridacchia. Finalmente può far riposare le orecchie».
Federica, 50 anni
Sofia: l’amore materno come bussola quotidiana
«Mia madre è stata altamente presente nella mia vita. Anche adesso che sono grande, vivo da sola e mi posso definire indipendente, il suo consiglio resta la mia bussola. Mi propongono un lavoro? Chiedo a lei. Litigo con il fidanzato? Mi sfogo con lei. Anzi, da quando vivo in un’altra città il legame lo sento ancora di più.
Solo di sesso non parliamo, né adesso né prima. Non che sia un tabù, ma non viene spontaneo né a me né a lei: è un argomento che riservo a mia sorella o alle mie amiche. Nella quotidianità c’è sempre stata, anche un po’ per necessità della vita: mia nonna, cioè sua madre, è morta quando eravamo piccole, lei ha messo da parte il lavoro per dedicarsi a noi e quando siamo cresciute non è riuscita a ingranare di nuovo.
Insomma, era presente: la mamma che quando torni a casa ti fa trovare le cose che ti piacciono nel frigorifero. Ma anche quella che la notte, piuttosto che venire a prenderci in discoteca, ci dava i soldi per il taxi. A parte questo, è protettiva e anche io lo sono con lei. Se penso di essere una figlia buona? Direi di sì, quantomeno fatica non gliene ho mai data. Andavo bene a scuola e il weekend ero via con gli scout. Ho sempre avuto una vita regolare. Poi, magari, lei darebbe un’altra risposta, ma ripensando al passato mi sembra sia andata così. Ogni tanto mi chiedo se, crescendo, vorrei somigliarle. Come donna non so: le mie scelte e i miei obiettivi sono diversi. Di certo, però, se un giorno anche io diventerò mamma, sì: spero di essere uguale. La perfezione non esiste e anche lei ha fatto i suoi errori, ma so di essere stata fortunata».
Sofia, 25 anni
Chiara: un amore pieno di ferite da guarire
«La prima cosa che penso quando penso a mia madre è che non avrebbe dovuto fare figli. Poi, certo, ogni cosa ha un perché. Lei è cresciuta in una famiglia matriarcale, conservatrice, attenta alle regole, e ha voluto ribellarsi. Era quella che usciva, andava in moto, non studiava: l’opposto di quello che poi ha preteso da noi figlie. Con mia sorella ha sempre avuto un rapporto conflittuale, io invece ero quella brava, la figlia “adeguata”, che però è un ruolo pesante: era come se la madre fossi io.
Si è separata da mio padre quando io avevo 3 anni: ha tagliato i ponti con lui e ha preteso che lo stesso valesse per noi figlie. Mi ha sempre detto: “Io sono tua madre e, con tutto quello che ho fatto per te, mi devi rispetto”. Ma non funziona così.
La mia fortuna è stata avere una tata amorevole, affettuosa, che mi ha fatto da mamma: mi ha dato l’idea della famiglia che io un giorno vorrei. Con mia madre, invece, il discorso sui figli e il matrimonio è difficile da affrontare. Quando mia sorella ha avuto le bambine, il rapporto è peggiorato. E lo stesso con me, da quando ho deciso di sposarmi. Sono io che mantengo i rapporti e la cosa mi costa fatica. La ferita per me è ancora aperta, ma un giorno queste cose vorrei dirgliele. Finché tu non sai davvero come si sentono gli altri, puoi permetterti di far finta di niente. Quando ci ho provato, mi ha sempre risposto: “Quando sarai madre capirai”.
Da adolescente, vedevo le mamme delle mie amiche e sognavo che la mia fosse uguale a loro. Poi ho smesso. Oggi l’accetto com’è. Ma non ho perso le speranze: c’è sempre tempo per diventare un bravo genitore».
Chiara, 35 anni