Come amano i ragazzi

Come amano i ragazzi di oggi

I 20 anni sono il tempo delle farfalle nello stomaco, dei baci rubati sotto casa. O almeno così pensiamo noi adulti. Perché per i ragazzi la paura di soffrire è più forte della voglia di buttarsi. Escono insieme, fanno sesso, ma “anestetizzano” le emozioni. Indagine sentimentale sulla Gen Z

Per una volta partiamo dalla fine. Da Carolina, 18 anni, fidanzata da uno, occhi di velluto, sorriso timido: «È la cosa più bella che mi sia successa negli ultimi mesi» ci dice quando, alla fine della nostra chiacchierata, le chiediamo com’è avere una relazione. Partiamo da qui, perché una frase simile è difficile sentirla pronunciare dai ragazzi della Gen Z, mentre per noi – Boomers, Generazione X o Millennials – era normale. Com’era normale che i 20 anni fossero il tempo delle grandi passioni, del buttarsi a capofitto, delle farfalle nello stomaco, dei baci rubati sotto casa con la mamma che ti chiamava dal balcone. Oggi non è più così. Non è né meglio né peggio, o comunque non spetta a noi dirlo. «È diverso, complicato. È tutto un po’ strano» ci spiega Carolina.

«Ma chi me lo fa fare?»

Proviamo allora a capire come amano i ragazzi, tra paure, sentimenti “ghostati”, paranoie e sogni. E lo facciamo partendo dalle loro voci. Giulia, 25 anni, single da 4, dice: «Avevo bisogno di aria. Dopo che mi sono ripresa dalla “mollatura”, non sento il bisogno di avere un altro ragazzo». E se le chiedi perché non prova quest’esigenza, va dritta al punto, mettendo al tappeto noi 50enni romantici: «Non siamo più disposti a scendere a compromessi. Le nostre esigenze sono diverse da quelle delle nostre mamme». Leonardo, 22 anni, la pensa come lei: «Le relazioni devono darti qualcosa in più, non privarti dello spazio, toglierti delle possibilità». Come uscire con gli amici, allenarsi, partire per l’Erasmus.

Per i ragazzi l’amore è fatica

Il primo punto che sembra chiaro è questo: per i ragazzi della Generazione Z l’amore è impegno, limitazione alla propria libertà. A Loredana Cirillo, psicoterapeuta della Fondazione Minotauro queste parole suonano familiari: «I ragazzi sono cresciuti in una cornice narcisistica, con genitori iper presenti e l’individualismo come valore principale» spiega. «È normale, quindi, che il sacrificio per l’altro non sappiano cosa sia e che la dipendenza emotiva – anche se buona – li spaventi». Anche perché scegliere di avere una relazione significa entrare in un’intimità, mostrare le proprie fragilità, i propri bisogni, autorizzarsi i sentimenti più autentici, vedere l’altro come un faro che ci mette in luce e non che proietta su di noi coni d’ombra. «Stare con un’altra persona è come guardarsi allo specchio, mettersi a nudo» racconta Carolina.

I ragazzi hanno paura di soffrire

Ma la presunta fatica e le limitazioni alla propria libertà non sono l’unico – né forse il vero – motivo per cui i ragazzi oggi sono timorosi nell’avere una relazione. «Dietro l’intollerabile idea di dover rendere conto delle proprie scelte a un’altra persona, si nasconde una paura più profonda, quella cioè di stare male, di essere abbandonati, di non vivere più nella mente dell’altro» spiega Loredana Cirillo. Una paura di cui parla anche l’attrice Denise Tantucci, 27 anni, protagonista della copertina di questo numero, nell’intervista a pag. 52. E che Giulia riassume con queste parole: «Quando ci piace qualcuno, invece di pensare: “Mi farà stare bene”, pensiamo: “Mi farà stare male”». Una consapevolezza che, se da un lato dimostra come le nuove generazioni sappiano che il rapporto più impegnativo che dobbiamo affrontare prima di poterci dare a qualcun altro è quello con noi stessi, dall’altro li fa stare sempre un passo indietro.

I ragazzi preferiscono le “situationship”

Occhio: questo non significa che sottovalutino i sentimenti. L’amore sembra essere ancora uno dei valori in cui credono. E sta proprio qui il paradosso. «I ragazzi ci pensano, ce l’hanno tanto in mente, lo desiderano, ma ne hanno paura e quindi ne stanno lontani» aggiunge l’esperta. E cosa fanno? Abbandonano per primi, anticipano le mosse, cercano di governare un loro timore emotivo. Oppure, cosa sempre più frequente, stanno in quella che si chiama “situationship” o anche “friendship with benefits”. Che Marta, 23 anni, fidanzata da 7, ci spiega così: «Più superficiale di un’amicizia, meno impegnativa di una relazione. Ci si vede, ci si bacia, si fa sesso ma non ci si definisce una coppia». Una forma di relazione che ai nostri tempi non esisteva anche perché, appena ti davi il primo bacio, scattava subito la domanda: «Stiamo insieme, vero?». E guai se il ragazzo in causa non rispondeva.

Vivono situazioni più che relazioni

Ma in una società sempre più fluida, in cui la sessualità è più spiata sui film porno e sulle app di incontri che vissuta, molti ragazzi preferiscono non impegnarsi troppo in una storia che non sanno dove li porterà. Ecco allora che, anziché “relazioni”, scelgono di vivere “situazioni”. Una sorta di «disimpegno emotivo», come lo definisce Giulia che lo ha sperimentato in prima persona, dove i confini sono molto labili e incerti e per questo avvertiti come più rassicuranti. Anche se in realtà non è così: perché la mancanza di impegno non significa per forza assenza di stress. Anzi, l’essere indefiniti, a volte, ti impalla il cervello con l’incertezza, l’inconsistenza, l’imprevedibilità.

Perché ci mettono troppa testa e poche emozioni?

C’è però chi ha il desiderio di vivere una storia vera, dichiarata. Ma in molti casi sono relazioni vissute in maniera “normalizzante”, assopita, con il freno a mano tirato, dove le emozioni sembrano essere sedate, chiuse in gabbia. «Sono stato fidanzato un anno. Sembrava un matrimonio più che una storia d’amore tra ragazzi» racconta Edoardo, 21 anni. Per intenderci, zero trasgressione, nessun colpo di testa, ma piuttosto serate a casa, vacanze con i futuri suoceri. «Anche questo è un modo per razionalizzare i sentimenti, per non gestirli di pancia e per avere l’illusione di tenere sotto controllo la situazione» spiega la psicoterapeuta. Ma l’amore, soprattutto a 20 anni, andrebbe vissuto non come paura, ma come capacità trasformativa perché ci dà la possibilità di immedesimarci in un’altra persona. «E per farlo i ragazzi dovrebbero riconoscersi il bisogno ancestrale di essere amati per quello che sono e di amare» conclude Cirillo.

Come scriveva Alda Merini in una sua bellissima poesia:

Ho bisogno di sentimenti, di parole,
di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri, di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all’ orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

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