coppia Alzheimer

Alzheimer, quante forme ne esistono?

Secondo un nuovo studio ci sono cinque profili differenti di Alzheimer: «In futuro farmaci più mirati”» spiega il neurologo

Non uno, ma cinque Alzheimer. Un nuovo studio fa luce su diverse forme della malattia, chiarendo come sia importante focalizzare la ricerca di nuovi farmaci in base alle differenti forme di patologia. Intanto le ricerche hanno portato a confermare uno dei fattori di rischio maggiori: il grasso viscerale.

Cinque diverse forme di Alzheimer

In Italia si stima che oltre un milione di persone soffra di una demenza. Di queste circa 600mila hanno il morbo di Alzheimer, come confermano i dati dell’Istituto Superiore di Sanità. Nel complesso, però, l’impatto della malattia è ancora maggiore, dal momento che circa 3 milioni di persone sono coinvolte nell’assistenza di familiari malati. Trovare una cura efficace rimane una priorità, ma forse da uno nuovo studio arriva una speranza in più. Un team di ricercatori coordinato dalla Libera Università di Amsterdam, infatti, ha condotto uno studio, pubblicato su Nature Aging, da cui emerge che non esiste un solo Alzheimer, bensì cinque. Questo potrebbe spiegare proprio la scarsa efficacia di alcune terapie oggi disponibili, se utilizzate per la variante sbagliata.

La proteina beta amiloide non è l’unica responsabile dell’Alzheimer

Gli studiosi hanno esaminato un campione di 1.058 proteine presenti nel liquido cerebrospinale (che si trova nel sistema nervoso) di 419 persone affette dalla malattia di Alzheimer. Questo ha permesso di individuare ben cinque varianti, tra le quali quella caratterizzata da una maggior produzione della beta amiloide, la proteina più conosciuta e ritenuta la maggior responsabile dell’Alzheimer. «La speranza è proprio che la scoperta incida sulla realizzazione di nuovi farmaci e più mirati. Basti pensare che sono una settantina quelli in corso di investigazione negli ultimi anni, alcuni ancora sotto esame. L’obiettivo sarebbe di aumentare l’attenzione nei confronti di quelli che ad oggi suscitano meno interesse e hanno meno finanziamenti», spiega Mauro Colombo, segretario e consigliere per la sezione lombarda della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria e ricercatore in Gerontologia clinica presso la Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso (MI).

Alzheimer, malattia ancora da scoprire

«Lo studio è molto innovativo e va preso in seria considerazione. Dimostra che esistono cinque profili diversi di proteine nel liquor, anche se al momento manca una correlazione con il quadro clinico. Significa che non è possibile associare queste varianti e condizioni cliniche specifiche. Oggi, comunque, sappiamo che la malattia può essere causata da un maggior accumulo non solo della proteina beta amiloide, ma anche dell’albumina o della proteina tau. In futuro dovremo far sì che questa conoscenza si traduca in una terapia specifica e mirata per le singole forme, perché al momento solo i casi che vedono interessata la betamolide sono candidati al trattamento con gli anticorpi monoclonali», chiarisce Elio Scarpini, Professore di Neurologia, già Direttore del Centro Alzheimer e Sclerosi Multipla “Dino Ferrari” dell’Università di Milano – IRCCS Fondazione Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico.

Quanto conta il grasso addominale?

Intanto arrivano altre conferme dai ricercatori, come il fatto che il grasso viscerale sia un fattore di rischio proprio per l’Alzheimer. A presentare le “prove” è stata la Radiological Society of North America che ha mostrato i risultati di uno studio da cui emerge un’associazione tra il tessuto adiposo della cavità addominale e la presenza (e volume) di depositi di proteine beta amiloidi o tau. Prendendo in esame un campione di 54 pazienti con moderata obesità e di età media tra i 40 e i 50 anni, sono state condotte risonanza magnetica e tomografia. Gli esami hanno mostrato una correlazione tra la presenza del grasso sul viscerale e una maggior infiammazione nel cervello.

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Cosa c’entra il grasso viscerale con l’Alzheimer

«La ricerca non sorprende perché è un dato abbastanza noto che ci sia una relazione tra l’incidenza dell’Alzheimer e una condizione di obesità. Il motivo sta nel fatto che il grasso – nello specifico quello viscerale, cioè che circonda gli organi interni – aumenta lo stato di infiammazione generale dell’organismo. Questo a sua volta pare che favorisca l’accumulo della proteina beta amiloide nel cervello», sottolinea Scarpini. «La buona notizia, però, è che il grasso addominale è un fattore di rischio modificabile. Questo è possibile cambiando lo stile di vita, quindi riducendo il grasso e aumentando l’attività fisica», aggiunge il neurologo.

I segnali precoci di Alzheimer

Un altro dato emerso dallo studio riguarda l’associazione che è risultata più marcata negli uomini, insieme al fatto che i primi campanelli d’allarme possono comparire in età precoce. Secondo gli autori i ricercatori della Washington University, infatti, alcuni segnali della patologia possono essere individuati fino dai 15 anni, per poi diventare conclamati ed evidenti in fase di diagnosi, intorno ai 50 anni di età. Per ridurre il quantitativo di grasso viscerale gli esperti consigliano di limitare il consumo di alcolici, bevande gassate, zuccheri aggiunti, consumando quantitativi non eccessivi di carni rosse e formaggi, e privilegiando verdure, cereali integrali rispetto a quelli più raffinati, carni bianche e pesce, e utilizzando grassi “buoni” come l’olio extravergine di oliva.

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