binge drinking

Un abuso che lascia il segno: i pericoli del binge drinking

Tra i ragazzi è sempre più diffuso il fenomeno del "binge drinking", l'abbuffata di alcolici fuori dai pasti. Qui vi spieghiamo cos'è e perché è così rischioso

Iniziano a stringere la bottiglia in mano a 14 anni, a volte a 11. Birra, mojito o gin tonic, qualunque cosa va bene per fare serata, sentirsi più “sciolti” e inserirsi nel gruppo. Un po’ come accadeva già 20 o 30 anni fa, certo, ma con una differenza: bere oggi, per la maggior parte dei giovanissimi, è assolutamente normale. Secondo l’Istituto superiore di sanità, nel 2021 1, 37 milioni di ragazzi tra gli 11 e i 25 anni hanno consumato alcol in quantità a rischio. Di questi quasi la metà, sono minorenni. Fino a sei drink in un’ora.

Binge drinking: cos’è

Si danno al binge drinking, l’abbuffata di alcolici fuori dai pasti, il rito dello sballo di ogni weekend. Lo vedi identico al Nord come al Sud, come conferma Giovanni Addolorato, professore di Medicina interna all’Università Cattolica di Roma e direttore dell’Unità operativa Medicina interna e patologie alcol correlate di Fondazione Policlinico Gemelli, a cui afferisce l’ambulatorio dipendenze. Un fenomeno drammatico che è lì, sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno sembri alzare un dito per fermarlo.

«Qualche anno fa abbiamo condotto un’indagine su 2.800 ragazzi delle scuole laziali» racconta l’esperto. «È emerso che il 60% di loro nei weekend abusava di alcol: in meno di un’ora potevano buttar giù più di cinque o sei unità alcoliche. Per unità si intende un bicchiere di vino, una lattina di birra da 33 cc o un bicchierino di superalcolico». La dose sicura non esiste.

Binge drinking: perché non va sottovalutato

Molti pensano che il binge drinking sia un passaggio adolescenziale “un po’” dannoso. Invece è già un abuso, dagli effetti devastanti. L’alcol è in Italia la prima causa di morte tra i giovani, non solo per gli effetti sulla guida. Nel 2021, su 35.000 accessi per alcol registrati nei Pronto soccorso italiani, il 10% erano under 18 finiti in coma etilico o con gravi epatiti alcoliche. Ma i rischi non sono solo nell’immediato. «Per i ragazzi non esiste una dose a minor rischio. Gli enzimi che metabolizzano l’etanolo si formano a 18-19 anni, prima di allora l’organismo non è in grado di digerirlo e l’alcol resta in circolo per giorni» continua il professor Addolorato.

Pochi, bicchieri possono avere per un sedicenne l’effetto di una damigiana e sono in grado di danneggiare tessuti e organi. «Il cervello, in primo luogo. Chi abusa di alcol in gioventù lo pagherà con deterioramento cognitivo anticipato». Già dopo un paio di mesi di binge drinking si vedono le conseguenze sulla memoria e la capacità di orientamento. «Ma i rischi sono anche per cuore, salute riproduttiva e tumori».

I danni soprattutto per le donne

Sono le ragazze a pagare il prezzo più alto. Tra i rischi peggiori, quello di un tumore al seno: associato al bere in ben l’8% dei casi. «L’organismo femminile è più sensibile alla sostanza. Per una donna adulta la dose quotidiana considerata a basso rischio è un bicchiere di qualunque bevanda alcolica, la metà rispetto all’uomo» spiega Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità e direttore del Centro per la ricerca e la promozione della salute sull’alcol dell’Oms.

«Oggi però le giovani consumano quanto i coetanei. Ignorano persino che l’alcol è altamente calorico. I giovani bevono di tutto e sono attratti dai cocktail alcolici a base di gin, vodka o rhum. Dopo un’estate di happy hours le ragazze in particolare si chiedono il perché di una taglia in più e di inestetismi causati dalle calorie dell’alcol, circa 150 per ogni cocktail». Diventare schiavi dell’alcol già prima dei 18 anni non è ipotesi remota, ed è sbagliato credere che solo “i fragili” ci cadano. «Tutti sono a rischio, perché bere è considerato “normale”: a casa, nei film, sui social. Il divieto di vendita ai minori non viene rispettato: birre e drink sono a portata di mano, solo che, se si beve per raggiungere effetti desiderati di euforia o di sballo, già dalla bevuta successiva l’organismo chiede dosi doppie e poi sempre maggiori per il fenomeno della tolleranza».

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Binge drinking: quando e come intervenire

Un ragazzo che torna a casa ubriaco tutti i sabati è il segnale che siamo oltre e bisogna agire. «Ma bisognerebbe intervenire prima. Perché quando l’alcol diventa elemento principale del divertimento, è già un problema. Spesso i pazienti dell’ambulatorio mi dicono: io senza alcol non mi diverto più. È allora che il salto è stato fatto» spiega il medico. Che fare? Portare il ragazzo in un centro specializzato, perché da soli non se ne esce.

I servizi sul territorio ci sono e vanno utilizzati. Il primo accesso sono i Serd, i Servizi pubblici per le dipendenze o i Noa, i nuclei operativi di alcologia, nelle Asl e negli ospedali. Nei centri si effettua una diagnosi e si procede con protocolli precisi. «Si agisce con la terapia farmacologica, per lenire il desiderio di bere, il supporto psicologico individuale e quello di gruppo, che si segue tramite gli alcolisti anonimi o i club alcologici territoriali» prosegue il professor Addolorato. «Ma perché funzionino c’è bisogno della volontà di smettere. La strada è lunga e i genitori devono mettere in conto, il fatto che ci siano delle ricadute fa parte del percorso. Ma provarci è necessario. Se lasciamo i ragazzi bere in questo modo, ci giochiamo una generazione».

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Quanto conta la famiglia

Cure e terapie non bastano, se la famiglia non si prende la sua parte di responsabilità e non affianca i ragazzi indicando loro la strada. Ne è convinto Simone Feder, psicologo e coordinatore dell’Area giovani e dipendenze della Casa del giovane di Pavia, che con la Fondazione Exodus e l’Università di Pavia ha condotto l’indagine Progetto Selfie intervistando decine di migliaia di ragazzi.

«I nostri giovani hanno genitori che non riescono a prendersi la responsabilità di guidarli. Soffrono di un senso patologico di solitudine. Anni fa si ubriacavano per imitare gli altri, oggi per quasi il 26% di loro il bere è un modo per affrontare momenti difficili: e questo dato denota tutto il loro male di vivere. Hanno in pancia un dolore e non sanno esprimerlo, così l’alcol diventa come la tachipirina per la febbre. E allora serve una guida, qualcuno che metta dei paletti e dica loro cosa fare perché da soli non ce la fanno».

Qui c’è chi ti capisce

Il telefono verde alcol dell’Istituto superiore di sanità (800632000) offre un primo counselling e le informazioni pratiche sui servizi presenti sul territorio. I SERD e i NOA si trovano nelle Asl e negli ospedali, basta cercare i servizi per le dipendenze.

Le associazioni di auto e mutuo aiuto, come gli Alcolisti Anonimi e i CAT, i Club alcologici territoriali, servono a confrontarsi e a condividere un percorso di cambiamento: trovi l’elenco su salute.gov.it, seguendo il percorso “temi” – “prevenzione” – “alcol”. Ma c’è anche chi pensa alla fatica e alle paure di genitori e parenti: le associazioni per i familiari come AL ANON danno sostegno e informazioni (al-anon.it).

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