Spingo la forchetta sulla lingua di mio figlio e lo prego, lo supplico, di mangiare almeno un boccone, almeno uno. Ma a mio figlio non interessa. Il cibo lo innervosisce, lo distrae dalle sue attività preferite; giocare con il cane, giocare con me, giocare con le pentole, giocare, giocare, giocare. Di lui dico sempre: «È un bambino allegro, solare, fino all’ora di cena». A cena mio figlio muta, altera i suoi connotati, e al posto dei suoi dolci sorrisi arrivano le urla, le lacrime, i lamenti.

Sovrappeso in adolescenza: quando il cibo divide genitori e figli

Sta bene. È un po’ sottopeso, ma è sano. I medici, tutti, alla fine arrivano sempre alla stessa conclusione: non è un tipo attratto dal cibo. Capita. Ci sono molte persone così. Mangia il minimo indispensabile, il giusto per sopravvivere, trova giovamento in altro. Io e suo padre ci scherziamo; come può essere uscito da noi? Ridiamo. Eppure, ogni pasto sospeso è una traccia del presentimento che mi abita e prende forme sempre più consistenti quel presentimento che mi raffigura come una pessima madre.

Corpi ereditati: crescere tra obesità e ossessioni alimentari

Lui non mangia e la colpa è mia: non so cucinare, non so fare la spesa, non so vivere. Una rappresentazione che arriva dalle mie origini. Sono cresciuta in una casa dove i corpi erano protagonisti. Mio padre, obeso, mia madre, fissata con la linea. Per un certo periodo, fino a quando lui era in vita, al posto della favola della buonanotte mi faceva ripetere un giuramento: giurami che non diventerai come me. Come? Grassa.

Il controllo del cibo in famiglia: un’eredità invisibile

Dopo la sua morte, mia madre ha cominciato prima a scomparire e poi, quando finalmente è tornata, la sua sopravvivenza ha trovato conforto nel controllo ossessivo del cibo. Il cibo che ingeriva lei. Il mio non lo ispezionava nessuno. Io mangiavo sempre, di continuo, di tutto. Poi, finalmente, mi ha vista, ha detto: «Così non va» e sono cominciate le cure, un dimagrimento che nulla aveva a che fare con i chili di troppo ma era il simbolo di una rinascita intellettuale, emotiva.

Disturbi alimentari e adolescenza: quando non si guarisce mai del tutto

Sono guarita? Mai. Mi basta prendere un etto per pensare di essere una fallita e mi peso almeno tre volte a settimana, di nascosto. Intanto mi professo libera dai condizionamenti comuni. Ma questa è un’altra storia. Mi è capitato spesso di chiedermi perché mi sia successo e perché mi succede ancora. La colpa, spesso, l’ho fatta ricadere sui miei genitori. Su quel padre che non faceva altro che ricordarmi di non somigliargli ma non mi ha dato nessuna indicazione per capire come essere diversa, e su questa madre che ancora oggi mi telefona per dirmi che è ingrassata. Con loro mi arrabbio per non essere stati abbastanza forti da smettere di essere vittime delle rappresentazioni dei corpi una volta diventati genitori.

Era loro dovere lasciare andare le influenze collettive e concentrarsi sull’insegnarmi uno stile di vita sano oltre la forma della mia pancia

Parole e peso: come il linguaggio influisce sull’immagine corporea

Non è solo questione di cibo ma di parole. Forse quello che avrei voluto non era qualcuno che al posto delle lasagne mi preparasse i minestroni, ma persone che non usassero espressioni di sdegno nei confronti di corpi non conformi, soprattutto quando quei corpi erano i loro. Avrei voluto essere libera dalle loro stesse ossessioni, non ereditarle come si fa con una tovaglia. Avrei voluto mi aiutassero a costruirmi un linguaggio adatto per raccontare la storia del mio corpo e di tutti i corpi che ho incontrato. Ma adesso che sono madre anche io, mi domando: chi ha aiutato i miei genitori a fare la stessa cosa con loro stessi? Senza negare la responsabilità del singolo, non possiamo tuttavia ignorare il fatto che individui preparati formano altri individui potenzialmente anche migliori.

Ma chi aiuta questi individui, che poi sono i nostri genitori, che poi siamo noi genitori, ad essere pronti, preparati appunto, alle varie prove che i (nostri) figli ci mettono davanti?

Sovrappeso in adolescenza: chi prepara davvero i genitori a questa sfida?

Io posso ripetere milioni di volte a mio figlio che essere più piccolo degli altri non è un problema, che il suo peso non lo rende inferiore, ma riuscirò così a impedirgli di soffrire quando qualcuno lo apostroferà con epiteti sgradevoli riguardo al suo corpo? Quando e se mio figlio verrà chiamato “piccoletto” o che so, di chi sarà la colpa? Mia? Di chi l’ha chiamato così? Dei genitori di chi l’ha chiamato così? L’obbligo della società nel promuovere un approccio più sano verso il corpo e l’estetica è un tema complesso e fondamentale. Alla società spetta il ruolo di creare un modo di pensare che valorizzi l’individuo per ciò che è, invece di limitarlo a come appare. Oggi come ieri, noi come i nostri genitori, siamo immersi in un sistema che, attraverso media, pubblicità e modelli universali, ci bombarda con immagini di perfezione e standard estetici irraggiungibili. Questo crea una pressione psico-fisica enorme, che alimenta insicurezze, ansie e comportamenti dannosi. Atteggiamenti che i nostri figli non solo vedono ma emulano.

Nutrire o proteggere? Il peso della responsabilità genitoriale quando si parla di sovrappeso in adolescenza

Il senso di responsabilità sui comportamenti alimentari dei figli nasce, innanzitutto, dal desiderio di esprimere amore e cura. Prendersi carico del cibo consolida un gesto di protezione, quasi una promessa di futura salute e benessere. Ma perché questo compito si traduce spesso in un senso di colpa così forte? Forse perché, in qualche modo, la nostra società si è intrecciata a un’idea per cui il successo o il fallimento di un individuo si misurano anche dalle scelte alimentari. La parabola della nutrizione diventa così simbolo delle scelte morali, delle capacità educative e della stessa perfezione materna o paterna.

Crescere figli in sovrappeso: controllo, fiducia e paure

Siamo creature che cercano di controllare ciò che sfugge, di dare un senso a ciò che non conosciamo pienamente. La crescita dei figli è un mistero che ci mette di fronte alla nostra limitatezza, e il cibo, con le sue implicazioni di rigore e piacere, si trasforma in un simbolo di questa nostra ricerca di controllo e significato. Fino a che punto la nostra idea di cura diventa un peso sostenibile, e quanto invece dovremmo imparare a lasciar andare, a fidarci che il percorso appartiene anche ai nostri figli? È più facile rispondere a questa domanda da figlia che da madre. E allora non rispondo. Mi viene in mente un aneddoto. Un gruppo di madri al parco, ad un certo punto una tira fuori una crostatina all’albicocca e le altre la guardano indignate: gli dai già gli zuccheri? chiedono. Allora questa madre, colma di collera e vergogna, si giustifica. Racconta che suo figlio è sottopeso, mangia poco e che pur di vederlo mangiare, ogni tanto fa uno sgarro e sì, gli consente gli zuccheri a un anno e mezzo.

Quella madre sono io, e a pensarci bene, pure quella figlia ero io: dolcetto nella borsa e testa carica di paure e di speranza