Siamo quasi coetanee. Forse è anche per questo che la nostra non mi sembra un’intervista, più un dialogo tra due ragazze che condividono lo stesso tempo. Martina Strazzer, modenese, classe 2000, è founder e Ceo di Amabile Jewels. Il nome è un omaggio affettuoso alla bisnonna paterna: un’eredità di dolcezza e forza che oggi vive anche nella visione del brand, cresciuto su TikTok e diventato un caso imprenditoriale. In primis per i numeri. Ha chiuso il 2024 con 8 milioni di fatturato, con un tasso di crescita del 2.200% in 3 anni. Quest’anno ha aperto il primo negozio fisico a Bologna, dopo i 3 pop-up tour di Milano, Firenze e Roma. E, oltre a una nuova collezione ogni mese, ci sono le iniziative che hanno fatto innamorare la community: il concorso Golden Ticket, che ha portato 4 vincitrici in vacanza alle Maldive con Martina, e progetti futuri come Amabiland, il festival in programma a Napoli il 12 e 13 luglio, ispirato alla linea estiva a tema safari.

Ogni storia inizia con un clic personale. Il tuo?

«Ho sempre avuto un’indole commerciale e visto opportunità nella mia creatività: ricamavo magliette, facevo le unghie alle amiche, davo ripetizioni. Il vero clic è arrivato nel 2020, dopo le superiori. Non sentire nessun percorso universitario davvero mio è stata paradossalmente una chance. Ho iniziato con poche centinaia di euro, dalla mia cameretta, complice questo mio senso di ribellione gentile. Non sono mai stata una figlia turbolenta, ma chi mi diceva che non avrei potuto raggiungere un certo traguardo mi spingeva solo a provarci di più. Sentivo di poter fare altro rispetto a ciò che la mia famiglia si aspettava da me».

Chi scopre Amabile cosa trova?

«Un’identità che si è costruita nel tempo, con le nostre clienti. Per chi già ci conosce, Amabile ha un valore legato al modo in cui l’azienda è nata: ogni acquisto è legato a un momento speciale, a un gesto di emancipazione personale. Ma c’è anche una questione estetica. I gioielli sono sempre stati concepiti come statici, mentre noi abbiamo cercato di renderli dinamici, stagionali, abbinabili. Sono un decoro per la propria immagine, infatti molto spesso sono più auto-regali che regali. Su TikTok mi piace mostrare come “cambio l’orecchio”, non l’orecchino: uso i miei 12 buchi per realizzare composizioni di singole creazioni liberamente intercambiabili».

Cos’ha di innovativo il tuo modo di fare impresa?

«Trovo che tutta l’imprenditoria giovanile sia innovativa di per sé. Secondo me, la vera rivoluzione che distingue le aziende di oggi da quelle del passato sta nelle persone. Da Amabile non c’è dress code, né esplicito né implicito, e non ci sono orari: valuto autonomia e responsabilità, non mi piace il controllo costante. Il mio team ha un’età media di 28 anni, ho scelto persone alla prima esperienza guardando il potenziale più del job title. Cerco di avere un approccio comprensivo all’errore, consapevole che ogni posto di lavoro è anche parte della vita, e che pretendere la perfezione non ha senso, né in azienda né fuori. Penso che ci siano imprenditori dei numeri e imprenditori delle persone: io appartengo ai secondi».

Cioè?

«Non me la cavo con i numeri, e va bene così. È importante conoscere le proprie inclinazioni. Le hard skills, però, si possono delegare: se ti mancano, assumi qualcuno per colmare il gap, come ho fatto io con il direttore finanziario. Una mancanza “umana” non è semplice da individuare: richiede sforzo, autoanalisi, consapevolezza dei limiti della propria intelligenza emotiva. È più difficile recuperare l’empatia che la competenza in Excel. Io sono sempre stata attratta da tutto ciò che aiuta a leggere gli altri, come le neuroscienze: voglio capire come funziona il cervello dei bambini, anche perché sogno di diventare madre, e degli adulti, per imparare a gestire meglio le relazioni. Anche come imprenditrice: prima che arrivasse un HR, ero io a occuparmi dei conflitti in azienda. Conoscevo tutti personalmente, mi prendevo il tempo per ascoltare, spiegare, mediare. Il team non è solo chi lavora: è la cosa più preziosa che ho. E se oggi siamo in 42, tutti più grandi di me, è perché ho scelto persone in cui credo, non solo profili da c.v.».

Hai vissuto difficoltà legate al fatto di essere una giovane leader?

«È stato un campo minato. Dovevo sempre dimostrare di più, come per compensare la mia età e il mio genere. Bastava una voce maschile al telefono, spesso presa in prestito a mio papà, per sbloccare trattative ferme da settimane. Mi sono chiesta: perché io devo sembrare competente per essere ascoltata, mentre a un uomo si concede attenzione a prescindere? Sono differenze di genere che ho visto anche in Amabile, quando sono entrati nel team dei ragazzi. Sono più diretti, sfacciati, non hanno paura di chiedere, specie quando si tratta di soldi. Le donne sono più caute, più attente. Spero che l’aumento di imprenditrici e di aziende giovani inverta la rotta e ci aiuti ad acquisire sicurezza».

Hai lanciato da poco anche una piattaforma per il recruiting, Taccier. Come nasce?

«Due anni fa, sotto Natale, ho avuto l’esigenza di assumere 15 persone. Il processo è stato faticoso, tra c.v. non pertinenti e ore perse a scremare candidature. La frustrazione era notevole, da entrambi i lati. Non c’era un modo più intelligente per aiutare sia aziende che lavoratori? Così è nata Taccier, che ribalta il meccanismo del recruiting. L’azienda riceve solo profili realmente compatibili sulla base di parametri concreti, è lei a candidarsi al professionista con una proposta di colloquio. Con Taccier abbiamo lavorato a un sistema sperando di renderlo più efficiente e meno “azienda-centrico”».

C’è stato un momento in cui hai sentito il crac di uno schema che si stava davvero rompendo?

«È difficile rendersi conto del cambiamento quando ci sei dentro. Un po’ come quando la zia ti dice che sei cresciuta ma tu ti vedi sempre uguale. Non abbiamo inventato nulla: il cambiamento è stato più nel modo di comunicare. Io poi sono molto auto-critica e vivo un tempo sfasato, lavorando alle nuove collezioni. Ma ci sono momenti in cui mi fermo e realizzo. Come quando ho visto 180.000 persone in coda virtuale sul sito: se provo a immaginarle, sono due stadi di San Siro pieni. Oppure quando guardo il mio team e penso: queste persone tornano a casa e raccontano di lavorare da Amabile. È lì che capisco la concretezza del mio progetto».

Parlando di quello che verrà nel lavoro e di come infilarlo nella vita che è solo nostra, ci salutiamo con un sorriso. Marta e Martina. Oltre alla radice del nome, forse alla fine condividiamo la sensazione che, a volte, la rivoluzione sappia essere brillante e allo stesso tempo gentile. Come l’orecchino giusto, dietro un ciuffo di capelli.