Non c’è nessun ritorno alla terra, almeno non nel senso che ci piace raccontarci. In Italia non esistono ancora le condizioni favorevoli allo sviluppo dell’imprenditoria giovanile in agricoltura, soprattutto quando si parla di giovani donne: gli appezzamenti sono cari, i salari bassi e gli strumenti normativi insufficienti. Lo si legge anche nell’ultimo censimento Istat: tra il 2010 e il 2020 i capi azienda sotto i 40 anni sono calati dall’11,5% al 9,3%. Eppure esistono storie che vanno al di là dei numeri, che non pretendono di rappresentare una tendenza collettiva, che restano semplicemente ciò che sono: scelte personali. Intrecci di inciampi e spinte che, come un’impronta digitale, definiscono un percorso di vita diverso da ogni altro. Chi ha trovato un angolo siciliano di mondo in cui fare la differenza. Chi tiene in vita un gusto raro che altrimenti andrebbe perduto. E chi, nei contorni di un vigneto, cerca il ricordo di colui che le ha insegnato a prendersene cura. Dietro questi tre “chi” ci sono Cecilia, Samantha e Ilaria. E queste sono le loro storie.

I pistacchi di Samantha

Sento un cane abbaiare in sottofondo quando risponde al telefono dalla campagna siciliana. «Nel mio futuro professionale mi sono sempre immaginata al servizio degli altri» esordisce. Quel futuro oggi è il presente per Samantha Pieraccini, 37 anni, che in Sicilia gestisce l’azienda agricola Barbaro. Dopo aver studiato Architettura, ha deciso di cambiare strada. «Mi sono scontrata con la burocrazia, ho pensato di andarmene dall’Italia, ma poi ho scelto di restare. Sono passati 13 anni e continuo a essere fiera di quella scelta». Oggi coltiva i pistacchi e gli ulivi secolari piantati dal bisnonno in un terreno appartenuto alla prima moglie, erede illegittima di una famiglia nobile alla quale era stato riconosciuto un fondo poco produttivo. Uno “scarto” da cui oggi si ricava il sensazionale pistacchio di Bronte. «È una pianta resistente, cresce tra la pietra lavica: coltivarla è faticoso. Lavoriamo su un terreno impervio dal quale spuntano piante scultoree. Non possiamo utilizzare mezzi meccanici e spesso ci inerpichiamo su costoni rocciosi come equilibristi» aggiunge ridendo. Le chiedo come sia nato l’amore per questa terra dura. «È stata una questione di benessere personale, ma anche di gusto.

A livello globale, solo l’1% dei pistacchi proviene da Bronte: una tale unicità andava preservata

Mi interfaccio spesso con coetanei che, come me, hanno scelto di tornare alla terra. E mi sembra che siamo tutti guidati dalla stessa motivazione: abbiamo un territorio da valorizzare e possiamo riuscirci producendo cibo buono. Perché non farlo?».

I vini di Ilaria

Ci siamo conosciute a un pranzo milanese da cui sono uscita ubriaca. Non di vino, sebbene ce ne fosse molto (e molto buono), ma di racconti. A Ilaria Felluga, 29 anni, piace parlare di ciò che è stato prima che lei diventasse la sesta generazione alla guida delle due aziende vitivinicole Marco Felluga e Russiz Superiore, nell’area friulana del Collio. «Insieme, le due realtà hanno più di 800 anni di storia: se hai tempo, te li racconto tutti!». La sua voce è dolce ma esperta. Non ha l’accento friulano perché per anni ha vissuto in Liguria. Dopo il diploma, si è trasferita a Londra per imparare l’inglese. E proprio lì, quasi per caso, è scattato qualcosa: il padre, in viaggio con un importatore, le ha chiesto di accompagnarlo. «Era la mia prima vera cena di lavoro e mi sono presentata in jeans e Converse in un ristorante stellato!». Quella sera, ascoltando il papà raccontare ogni calice e ogni bottiglia, ha capito che il vino poteva essere anche la sua strada. «Sono tornata in Italia e mi sono iscritta a Viticoltura ed Enologia all’Università di Udine». Diversi anni dopo, il padre di Ilaria viene a mancare e lei ne prende il testimone. «Ero la figlia del capo, la più giovane, donna: tante sovrastrutture contro cui muovermi.

Ma papà ha sempre pensato che le donne abbiano una sensibilità maggiore rispetto agli uomini, anche nell’assaggiare le uve

Oggi rispetto la tradizione dell’azienda, ma cerco anche di portare freschezza. Organizzo passeggiate a cavallo, sessioni di yoga nelle vigne e serate di osservazione astronomica al telescopio. È la mia visione di un’azienda che continua a essere legata alle radici ma si rinnova». Mi guarda, sorseggiamo un Pinot Grigio e sorridiamo. «Mi piace parlare di una realtà lunga secoli che per me è sia lavoro sia famiglia. Ma sai cosa diceva mio nonno? Vale più un sorso di un discorso».

L’agricoltura biodinamica di Cecilia

La connessione della nostra videochiamata va e viene: Cecilia Carbone, 30 anni, si trova nell’azienda agricola biodinamica Serra Ferdinandea, ai margini occidentali dei Monti Sicani, tra Sciacca e Sambuca di Sicilia, e lì Internet non prende. In compenso, in 110 ettari vengono prodotti vini, pasta, farine e legumi provenienti da antiche varietà locali, accompagnati dal miele di ape nera sicula. «L’azienda nasce dalla volontà di conservare un luogo trovato incontaminato, del tutto vergine a qualunque tipo di agricoltura da ben 400 anni. Avevamo la responsabilità di preservarlo e valorizzarlo» spiega Cecilia, raccontando di quello che definisce “Serra-pensiero”. «Lavorare qui mi ha insegnato a passare molto più tempo a osservare invece che a cercare soluzioni: spesso la natura permette di comprendere se qualcosa non va solo guardandola. La biodinamica non concede molti trattamenti né prodotti chimici: sei tu che devi stabilire una certa sensibilità verso ciò che ti circonda». Dopo una laurea in Economia e una vita a New York, Cecilia si è trasferita in Sicilia. «Volevo cambiare le cose attraverso l’agricoltura. Ma non è un ritorno alla terra motivato dalla “foga per il rurale”, come spesso viene dipinta. Piuttosto, la terra è una risorsa identitaria». Cioè? «Che sia un progetto di recupero familiare o la possibilità di mettere le mani nella pasta del cambiamento, il ritorno alla natura ci riattiva».

Quando mi sposto da un punto all’altro dei campi, ho lo spazio mentale per osservare e pensare. La lentezza della campagna è propulsiva

Anche se per un attimo la connessione si è interrotta, ho compreso bene il messaggio di Cecilia. «È una questione di compatibilità tra la vita che hai e quella che desideri. C’è una parte istintiva di benessere che nasce dalla calma immediata che si prova in un ambiente naturale. Qualcuno la chiama “biofilia”». Dal greco, “amore per la vita”.