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Crisis manager: l’addetto all’immagine delle star

Il caso Ferragni dimostra quanto oggi sia determinante avere una buona immagine, difenderla dagli attacchi e ricostruirla se va in frantumi. Le strategie giuste non si improvvisano, perciò sono sempre più richiesti professionisti capaci di “salvare la faccia” di celeb e aziende. Si chiamano reputation manager

Cos’hanno in comune Will Smith e Chiara Ferragni? J. K. Rowling e Dolce e Gabbana? In un passato più o meno recente hanno attraversato una crisi – di immagine, ma non solo – che ne ha messo (ir)rimediabilmente a repentaglio la reputazione, di conseguenza, gli affari. Le cause di una crisi possono essere le più disparate: parole e immagini sbagliate nel caso di Dolce & Gabbana e di J. K Rowling, uno schiaffo in quello di Will Smith, campagne marketing ingannevoli per Chiara Ferragni, indagata per truffa per le iniziative benefiche legate al pandoro Pink Christmas Balocco, alle uova di Pasqua Dolci Preziosi e alla bambola Trudi.

Crisis manager: ogni crisi è unica

Anche se il percorso di “redenzione” può essere simile, come nota Andrea Barchiesi, fondatore nel 2004 dell’agenzia italiana Reputation Manager, «ogni crisi è un caso a sé». Proprio per analizzare i meccanismi all’origine di una crisi e ricostruire l’immagine di un brand, esiste una figura professionale specifica, diventata cruciale in una società iperconnessa come la nostra. È il “crisis manager” o, più in generale, il consulente di reputazione digitale: “reputation manager”, appunto.

Un reputation manager può essere utile non solo alle celeb. «Ogni professionista può avere l’esigenza di curare la propria immagine pubblica e si rivolge a noi per costruire un profilo coerente con la sua attività, competenza e personalità» spiega Lorenzo Brufani, founder & ceo di Brand Reputation & Digital PR Competence di Milano. Nel caso invece di un imprevisto, se non addirittura di un epic fail, al consulente di reputazione tocca l’arduo compito di rimettere insieme i cocci di una reputazione in frantumi.

L’importanza del crisis manager

Ma, mentre nei Paesi anglosassoni molte imprese si sono dotate di strumenti e persone capaci di prevenire le crisi o quantomeno affrontarle in maniera tempestiva, «da noi ancora si pensa che tanto poi passa, che basta il silenzio, quando quasi mai è così» dice Brufani. «Da anni spiego alle aziende quanto sia strategica la brand reputation per la loro comunicazione, ma solo ora se ne stanno rendendo conto».

Come “da tradizione”, infatti, nel nostro Paese si lavora quasi sempre sull’emergenza e poco sulla prevenzione, e le crisi aziendali non sono da meno. Anche in questo senso, dal caso Ferragni c’è molto da imparare. «È la prima vera crisi di questo genere, dove la protagonista è un’influencer, quindi è lei il prodotto. Ed è una crisi che nasce da un comportamento antitetico rispetto al suo posizionamento valoriale – di impegno sociale, beneficenza, attenzione ai bambini – per cui il colpo accusato è doppio» sostiene Barchiesi.

L’altrettanto famoso video di scuse poi, secondo gli esperti, non ha fatto che aggravare la situazione. «Credo sia stata una sua iniziativa a spinta “emozionale”: nessun consulente di crisi glielo avrebbe mai consigliato» commenta Brufani. «È stato come vedere una Mercedes trasformarsi in una Bianchina e perdere di coerenza. E il milione di euro donato a posteriori ha creato ancora più lontananza».

Crisis manager: i casi Ferragni e D&G

«Il nostro è un mestiere complicato, perché ogni crisi è diversa dalle altre e ha protagonisti differenti», afferma Barchiesi. «Quell’abito grigio da penitente forse andava bene per Dolce & Gabbana, che dopo aver offeso la Cina hanno dovuto prostrarsi verso un’intera Nazione, ma non per Ferragni». Per stabilire l’entità di una crisi e la sua deflagrazione, l’agenzia di Barchiesi utilizza una scala esponenziale da 0 a 10, come quella Richter.

Dolce & Gabbana – PH: Launchmetrics

Per dare un’idea: la crisi Ferragni è quotata 7.2, quella D&G lo era 6.3. Ma recuperare consensi si può. Si pensi al caso Barilla scoppiato nel 2013, in seguito alle parole del presidente Guido, «Non farei mai uno spot con una, famiglia omosessuale», che fu accusato di omofobia. «L’azienda ha costruito un percorso di resurrezione durato quasi 10 anni» osserva Brufani. «È cambiata la sua organizzazione, si è implementata la diversity nel gruppo e oggi è davvero più Lgbtq+ friendly».

Come diventare reputation manager

Per risultati di questo tipo di solito, però, non basta il lavoro di un solo professionista, l’efficacia è frutto di un pool. Conferma Barchiesi: «Nella nostra agenzia lavorano legali, giornalisti, psicologi, ma anche tecnici e ingegneri informatici come me, che sanno usare i dati e veicolare le informazioni online». Un esempio? La pratica del “link killing”, con cui si immettono in Rete notizie positive su un brand per far “scendere” nelle ricerche quelle negative.

Eppure, al netto di alcuni corsi di formazione o moduli di insegnamento in università, in Italia una scuola o un corso di laurea specifici per crisis manager ancora non ci sono, anche se sia Barchiesi sia Brufani desiderano crearne uno. Nel frattempo, il consiglio che entrambi danno agli interessati è di rivolgersi direttamente alle agenzie e fare esperienza sul campo. Brufani assicura: «La consapevolezza da parte delle aziende sta crescendo, il lavoro non mancherà. Crisi come quella di Ferragni servono anche a fare educazione»

I corsi

Il 21 febbraio parte il corso di 2 mesi in Brand Reputation and Digital Pr organizzato online dallo Ied di Milano e coordinato da Lorenzo Brufani (ied.it). Presso la LUISS Business School di Roma si tiene il corso di Crisis Management all’interno dell’Executive Corporate Communication Programme (business school.luiss.it).

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