Il Gender gap non lascia scampo alle donne neppure nel mondo della musica. Non importa se l’artista con più successo del momento nel mondo sia Taylor Swift, se ci siano esempi illustri come Madonna o Shakira. Tra le italiane ci sono anche Giorgia o Annalisa, con quest’ultima che ha ottenuto riconoscimenti importanti anche all’estero, come il “Global Force Award” ai Billboard Women in Music 2024, il premio “Fenómeno del año en Europa” ai LOS40 Music Awards 2024 e, recentemente, il “Best Italian Act” agli MTV Europe Music Awards. Non importa, appunto, perché a conti fatti devono affrontare ancora discriminazioni, soprattutto nelle retribuzioni.

Le artiste donne protagoniste, ma meno pagate

Taylor Swift, infatti, rappresenta una delle poche eccezioni di donne protagoniste della scena musicale, che può vantare guadagni da capogiro, superiori anche a quelli di molti colleghi uomini. Ma in media la realtà è che le cantanti sono meno pagate rispetto ai loro colleghi uomini. Lo dimostra la ricerca Donne Mu-De: donne, musica e denaro, presentata in occasione di “Women in Music”, quinta edizione della rassegna organizzata a Milano da SAE Institute, accademia di formazione nei media creativi. «In Europa il divario retributivo di genere è mediamente del 12%, mentre in Italia raggiunge il 28% su base giornaliera e addirittura il 40% su base annuale», spiega Alessandra Micalizzi, coordinatrice dello studio e docente di SAE.

Perché il mondo musicale è più difficile

Oltre al divario di genere che caratterizza anche altri ambiti, il settore musicale ha alcune peculiarità che rendono difficile la carriera femminile: «È un sistema destrutturato, che spesso passa da una lunga gavetta, di frequente gratuita o poco pagata; i pagamenti a volte sono “in nero” e manca il riconoscimento generale di un valore economico a ciò che è ritenuto “arte”, o perché difficile da quantificare o perché non è riconosciuto come lavoro vero e proprio», spiega ancora Micalizzi.

Il gender gap nella musica

Secondo i dati di Universal Music UK 2023, il gender pay gap nel settore è in media del 25%. Le donne occupano il 28% dei ruoli più remunerati e il 57% di quelli meno pagati. Le diseguaglianze riguardano anche i “bonus”: li riceve il 76% delle donne rispetto all’81% degli uomini, ma con un divario anche nei compensi: in Sony Entertainment Music UK, ad esempio, è pari in media al 49,4%. Proprio da questa azienda arriva una fotografia analoga sul gender gap medio (15,9%) così come da Warner Music UK (13,6%), mentre sale per PRS for Music (20,3%).

Poche eccezioni delle diseguaglianze

Certo, esistono eccezioni ben note: «Il numero di artiste nelle classifiche è in crescita, per lo meno a livello internazionale, e alcune hanno un peso economico rilevante (si pensi proprio a Taylor Swift), ma in realtà continuano a esserci elementi di disparità – osserva Micalizzi –. Il numero di artiste, sia come interpreti che come produttrici, è ancora lontano dal 50% (nel 2023 il 40,6% dei posti in classifica a livello internazionale era occupato da artiste donne), ed è diverso il peso specifico riconosciuto nel mercato musicale».

Le donne non sono considerate professioniste

In un mondo dove la maggior parte dei protagonisti è libero professionista, «spesso manca proprio il potere di negoziazione. È un fenomeno che riguarda anche gli uomini, ma con la differenza che a loro è riconosciuta maggiore professionalità. Prendendo ad esempio un altro ambito, come quello della cucina, un uomo che vi si dedica è uno chef, mentre per una donna rimane l’idea che, per quanto brava, vi si dedichi solo in forma amatoriale. Nel mondo della musica accade qualcosa di simile: una delle nostre intervistate, per esempio, ha raccontato di avere la sensazione di essere vista come una bambina che gioca con gli oggetti del papà».

Le forme “alternative” di ricompensa: il baratto e il ricatto

I dati di una ricerca di Equaly (la prima realtà italiana che si occupa di parità di genere all’interno del music business. ) pubblicata nel 2023 indicano come non manchino forme di “baratto” sostitutive al compenso monetario. In altri casi, invece, «si tende a pagare meno le artiste donne sottolineando la visibilità ottenuta dalla performance che si offre di avere oppure il “piacere” dell’esperienza vissuta, come se non si trattasse di un lavoro – sottolinea Micalizzi – Dalla nostra indagine, poi, emerge come la retribuzione media per le artiste under 45 è tra i 13 e i 15mila euro all’anno: troppo poco per avere un’indipendenza economica, tanto che molte limitano la propria progettualità, rinunciano al proprio sogno oppure vivono in modo patchwork, unendo l’attività musicale ad altri lavori», osserva la ricercatrice.

Poca autonomia, poca libertà per le donne

La necessità di accettare contratti frammentati o non strutturati porta spesso anche a dipendenza economica da qualcun altro, come il partner o la famiglia, con uno scarso coinvolgimento delle donne nella gestione dei soldi. «Secondo la nostra ricerca il 30% delle donne si affida ad altri, mentre occorrerebbe una maggiore consapevolezza finanziaria femminile: l’educazione economica dovrebbe partire fin dalle scuole», spiega Micalizzi. Non si tratta di imparare solo o soltanto i primi rudimenti, non serve il mero esercizio aritmetico, ma una presa di consapevolezza», sottolinea Isa Maggi, economista e founder degli Stati Generali delle Donne, a cui è stato affidato un workshop su questo tema specifico in occasione di “Women in Music”.

L’importanza del denaro nel mondo musicale

Le donne, dunque, vanno responsabilizzate soprattutto sugli aspetti della gestione finanziaria di un progetto musicale. «Solo così si aumenterà l’empowerment delle giovani professioniste che si affacciano al mondo della musica – spiega Maggi – Oggi la priorità è educare perché l’autonomia economica è un passaggio fondamentale per le donne, se si vogliono evitare violenza economica o altre forme di abuso, diffuse anche nel mondo artistico. Abbiamo un ottimo apparato normativo in tema di violenza, ma va applicato. Da questo punto di vista la formazione passa necessariamente anche dai tribunali, da giudici e avvocati che ancora non conoscono le leggi, come la Convenzione di Istanbul. Aumentando la conoscenza diminuirà anche la sfiducia delle donne nel denunciare eventuali soprusi», conclude Maggi.