soldi

Altro che sesso! Il tabù delle donne sono i soldi

Le donne non parlano di soldi. Delegano agli uomini il mutuo, il conto corrente e gli investimenti. E si sentono in colpa a chiedere un aumento. È il momento di abbattere questo tabù

Ci sono dialoghi capaci di imprimere una direzione ai pensieri e plasmarne la forma futura. Era tanto tempo fa: «Mamma, quanto costa?» domandai in estasi di fronte al nuovo televisore a colori, con la curiosità vorace e impertinente dei miei otto anni. Uno sguardo mi incenerì. «Non deve interessarti: le signorine non si occupano di denaro». Ci hanno insegnato che i soldi sono sporchi e noi, creature candide per antonomasia, dovevamo tenerli a distanza per evitare di insudiciarci. I soldi, ci spiegavano, sono anche volgari; parlarne, per noi ragazze educate, sarebbe stata una imperdonabile caduta di stile.

Perché le donne non parlano di soldi?

Al mondo del lavoro ci siamo affacciate così, impreparate e ingenue, incapaci di chiedere, convinte che il pagamento dello stipendio fosse, più che la contro-partita delle nostre fatiche, una pratica generosa e un po’ imbarazzante, da evadere senza clamore né pretese. E se, in un momento di spavalderia, tentavamo di rompere il tabù del denaro, nominandolo invano, venivamo immediatamente zittite dal senso di colpa, altra trappola nefasta che ci impedisce di volare. «Vuoi un aumento di stipendio? Proprio tu, sciagurata? Come osi?» ci domandava il nostro super io censorio, facendosi una grassa risata. E subito dopo ci ricordava che avevamo avuto l’ardire di fare dei figli, di iscriverci al corso di yoga, di prenderci tre settimane di ferie, di lasciare l’ufficio la sera dopo solo 9 ore alla scrivania. E noi, docili e assennate come ci hanno disegnate da piccole, ci ritiravamo nel nostro guscio, comunque grate per quello che ci veniva concesso.

Lavoro, poche assunte con gli incentivi: la parità è un sogno

VEDI ANCHE

Lavoro, poche assunte con gli incentivi: la parità è un sogno

Il valore del nostro lavoro

Da dieci anni sono free lance, o libera professionista, che suona meglio. Abito la precarietà, con soddisfazioni alterne e ansia continuativa. Del domani non ho grandi certezze. Tuttavia, in questo tempo, ho imparato che i soldi, né sporchi né puliti, misurano il valore del nostro lavoro. Rappresentano il prezzo della nostra fatica e delle nostre competenze. Sono uno strumento di emancipazione e indipendenza. La nostra dignità passa anche da lì, da quella presunta volgarità di cui non dovremmo macchiarci. E non ci può essere vergogna intorno alla dignità. Chiedere ad alta voce quello che ci spetta è una forma di rispetto per noi stesse. L’altro giorno mi hanno offerto un lavoro piccolo ma impegnativo per un compenso minimo. Come quasi tutti i free lance, tendo ad accettare ogni proposta. Carpe diem è il nostro motto. Per la prima volta ho detto no. «Perché?» hanno domandato stupiti. Mentre cercavo una scusa qualsiasi, la mia voce ha risposto: «Perché valgo più di così». «Quanto è il tuo prezzo?» hanno ribattuto senza scomporsi. Ripensando al prezzo misterioso di quel televisore a colori della mia infanzia, ho sparato una cifra. Hanno accettato. Mi sono sentita sporchissima e volgarissima. Ed è stato fantastico.

Riproduzione riservata