Della vicenda dell’insegnante di scuola elementare paritaria di Treviso si è detto tanto. Il fatto è noto. Una maestra scrive una nota su un compito a un suo bambino di quinta: «Sinceramente sono stufa di correggere innumerevoli correzioni di verifica scritte con i piedi, piene zeppe di errori ortografici gravi e di inesattezze. Se la tua idea è di continuare così, per me puoi stare a casa!».
Maestra e famiglia contrapposti, quando dovrebbero essere alleati
A parte l’italiano poco fluente (frutto probabilmente della stanchezza dell’insegnante e dei tanti elaborati da visionare), colpisce il tono della sua osservazione. Un tono che ha colpito anche i genitori i quali, dopo essere andati a colloquio con i preside e aver chiarito, qualche settimana dopo hanno deciso di diffondere la notizia. Ed è scoppiato il caso. La maestra si è scusata, il preside l’ha difesa. Nel frattempo si sono compattati gli schieramenti: si è detto che gli insegnanti sono stressati, sono stanchi, che non possono gestire bambini sempre più distratti, precoci e poco seguiti. E che in fondo il loro lavoro è proprio quello di correggere gli errori. Poi si è detto che le famiglie sono la rovina della scuola, che non devono entrare a gamba tesa nel lavoro degli insegnanti, che un tempo maestre e maestri erano più liberi e, per finire, che la scuola oggi non può più lavorare.
La nostra scuola è vecchia
Già, il problema è proprio questo: come lavora oggi la scuola? In una società che cambia così velocemente, è pronta a cambiare con altrettanta velocità? Ce lo chiediamo perché i genitori del bambino lamentano il ricorso a metodi antiquati, come quando la maestra ha privato l’alunno della ricreazione, oppure lo ha minacciato di non farlo partecipare allo spettacolo di fine anno (come se il teatro fosse un premio, quando dovrebbe essere una materia curricolare). Sono strumenti educativi anche questi, o il segno, piuttosto, dell’incapacità a educare? Lo chiediamo alla pedagogista Angela Rinaldi, formatrice di insegnanti e dottoranda in Educazione nella Società Contemporanea all’Università Milano Bicocca. «IIn generale, dire a un bambino che è meglio che stia a casa, significa non riconoscere il suo diritto di andare a scuola, di imparare. Si tratta di un rifiuto e di un modo di valutare che, tutt’altro dall’essere formativo, non accompagnare gli studenti nel migliorare i loro apprendimenti ma rischia di spegnere la loro motivazione ad imparare». A scuola, insomma, nessuno dovrebbe sentirsi di troppo.
La maestra dev’essere una professionista della pazienza
L’insegnante dovrebbe essere un professionista della cura, della pazienza. E gli errori dei bambini un’occasione di rilancio per capire come proseguire, soprattutto per insegnare ai bambini l’importanza di sbagliare. La nota della maestra lascia trapelare tutto il contrario: una stanchezza e una visione valutativa legata alla correzione, in cui l’errore non viene accolto. «L’insegnante deve osservare, raccogliere le informazioni e farsi delle domande: cosa non sta funzionando nel percorso di questo studente e nel mio modo di insegnare? Quello che sto facendo, promuove lo sviluppo della sua capacità di apprendimento o, al contrario, la blocca? È fondamentale che un insegnante, a qualsiasi livello, si metta in discussione. E, in ogni caso, la sua valutazione dovrebbe essere trasformativa, capace cioè di aprire spiragli per il futuro». La nota della maestra, piuttosto che guardare in avanti, alza un muro. Il suo appare infatti come un definitivo, perentorio rifiuto, un alzare le mani: “Non ce la faccio più”.
Nelle scuole dovrebbe esserci la figura del pedagogista
È lecito che un docente possa non farcela più, ma dovrebbe poter fare affidamento sulla struttura scolastica. C’è un preside, ma soprattutto ci sarebbero i pedagogisti. In Italia questo ruolo è stato riconosciuto da poco, con tanto di legge e pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, che ha istituito l’albo: esistono quindi professionisti dell’educazione, che possono aiutare i docenti nel loro difficile ruolo, soprattutto oggi: «La scuola dev’essere in grado di guardare in faccia la realtà, cioè i bisogni delle persone che oggi vengono a scuola» prosegue la dottoressa Rinaldi.«Pensare di insegnare oggi anche solo come vent’anni fa, è anacronistico: è qui che si genera lo scarto tra come sono i bambini oggi, e quello che offriamo loro. Il punto è che diamo risposte vecchie a problemi nuovi». In questo senso il pedagogista potrebbe aiutare il corpo docente: «Alcune scuole stanno attivando progetti di supervisione e consulenza pedagogica per gli insegnanti. La figura del pedagogista, nello specifico, è più diffusa nei servizi 0-6 anni, come nidi e scuole dell’Infanzia». Ma servirebbero in tutte le scuole, per dar modo ai docenti di farsi aiutare e anche di aggiornarsi.
L’importanza degli spazi a scuola
Il bambino in questione è stato messo fuori dalla classe per calmarsi. «Il problema forse non è lui, ma gli spazi che offriamo ai nostri bambini. Le aule con i banchi tutti in fila e la lezione frontale non funzionano più, per i bambini di oggi ma neanche per quelli di ieri, e lo dicono le neuroscienze. Ci vogliono altri setting, un altro modo di fare scuola, in grado di accogliere le mille sfaccettature dei bambini di oggi. Alcune scuole si stanno mobilitando per predisporre aule differenziate in base all’area didattica: scientifica, umanistica o artistica. Sparisce quindi il concetto delle classi rigide e lo spazio diventa parte del processo educativo, in cui anche i genitori sono coinvolti».
I genitori non vanno estromessi, ma coinvolti in un altro modo
Altro che estrometterli: i genitori avrebbero un ruolo chiave nella scuola del futuro: «In alcuni Paesi europei e anche in scuole italiane, i genitori sono coinvolti nella progettazione degli spazi e nella condivisione dei programmi, fin dall’inizio» prosegue l’esperta. «In questo modo si crea quella preziosa alleanza con la famiglia che aiuta l’insegnante a fare il suo lavoro, fatta di confronto e colloquio continui». Quindi ci chiediamo: in questa scuola, c’era quel patto? Possibile che quei genitori non si siano accorti che il loro figlio aveva delle lacune? Se non si tratta di uno studente con BES, i bisogni educativi speciali, allora in questa faccenda hanno tutti le loro responsabilità, scuola e famiglia. La scuola perché non deve lasciare indietro nessuno, la famiglia perché non ha vigilato. «Torna alla mente la famosa frase di Don Milani, più attuale che mai» conclude la pedagogista. «Se si perdono i ragazzi difficili, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”». Non sappiamo se questo bambino sia “difficile”. Di sicuro avere un’insegnante che gli dice di restare a casa, non lo aiuta.