Isabel Allende

Isabel Allende e il suo nuovo romanzo ispirato a una storia vera

Nel nuovo romanzo, Il vento conosce il mio nome, la scrittrice cilena si ispira a una storia vera per parlare di una crisi umanitaria invisibile: i bambini separati dai genitori al confine tra Messico e Stati Uniti. «Per quanto fortunata, sono stata anch’io una profuga. So cosa significhi sentirsi stranieri»

Il nuovo romanzo di Isabel Allende: Il vento conosce il mio nome

«Un paio di anni fa ho saputo di una ragazzina cieca che era stata separata dalla madre alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, dove la mia fondazione lavora con i rifugiati». Isabel Allende è nella sua casa in California quando la raggiungo via Zoom. È, come al solito, gentile e disponibile. Ha voglia di parlare del suo nuovo libro Il vento conosce il mio nome (Feltrinelli). Un romanzo dalla parte dei più deboli: i bambini strappati ai genitori, vittime delle brutture della Storia o della politica. Tra le pagine la vita di Anita Diaz, 7 anni, cieca, scappata da El Salvador con la madre e finita in un campo a Nogales, dove c’è il muro che separa il Messico dall’Arizona, si intreccia con quella di Samuel, fuggito da Vienna durante il nazismo col “Kindertransport”, il treno che portava i piccoli ebrei in Inghilterra. Isabel Allende continua a raccontarmi la storia della bambina a cui si è ispirata. «Per oltre 8 mesi la madre si è persa nelle maglie della burocrazia, mentre lei è stata trasferita di campo in campo. Riesce a immaginare il trauma di quella ragazzina in un Paese straniero senza la madre, senza conoscere la lingua e le persone intorno a lei? La sua sorte è stata diversa da quella della protagonista del mio libro: è stata processata e deportata. E noi abbiamo perso le sue tracce».

Il vento conosce il mio nome - copertina

L’intervista a Isabel Allende

Mettendo a confronto la vicenda di Samuel durante il nazismo e quella di Anita durante la presidenza di Donald Trump voleva dirci che la Storia si ripete?

«Quando è scoppiato lo scandalo della separazione dei bambini dai genitori al confine col Messico, una vicenda orribile, ho pensato che fosse una storia già vista: era successo coi nativi americani, con gli schiavi, in Canada, in Australia, in Germania, in Austria. Ovunque. I bambini sono stati strappati alle famiglie o abbandonati negli orfanotrofi. Era importante per me collegare la storia di Anita a qualcosa successo nel passato per renderla più reale».

Queste cose accadono ancora?

«Il problema adesso sono le migliaia di minori che attraversano il confine da soli. A chi mi dice “Perché arrivano?”, io rispondo “Perché sono disperati”. Come si può pensare che un genitore possa decidere di separarsi dai figli a cuor leggero?».

Il problema dei rifugiati

Che reazioni ha suscitato il suo libro negli Usa?

«Tanti mi hanno scritto, qualcuno dicendo che non aveva mai pensato all’immigrazione in questi termini. Eppure la maggior parte dei lavori umili negli Stati Uniti è svolta da immigrati. Ma la gente non “vede”, dietro a questi impieghi, le persone che forse hanno attraversato il confine illegalmente. L’altro giorno ho parlato con alcuni giardinieri del Guatemala: per farli venire qui un trafficante ha chiesto loro 18.000 dollari. Dovranno lavorare 3 o 4 anni per pagare il debito col rischio, se non ci riescono, di essere ammazzati o che facciano del male alle loro famiglie. È una crisi umanitaria globale che richiede una soluzione globale. Diventerà ancora più urgente con la crisi climatica. Costruire muri non è la soluzione».

Romanzi come il suo possono aiutare a cambiare le cose?

«Non ho l’ambizione di cambiare la politica. Ma se raggiungo il cuore di un lettore, lo avvicino a me e ad Anita, allora ho ottenuto qualcosa».

Lei ha sempre raccontato di donne forti e coraggiose. Lo fa anche stavolta?

«I rifugiati nel mondo sono oggi 110 milioni. L’80% sono donne e bambini. Ed è donna anche la maggior parte di chi li aiuta. Negli Usa tra i 40.000 avvocati che lavorano pro bono per proteggere i bambini, 9 su 10 sono donne. Ci sono poi le psicologhe, le assistenti sociali, le infermiere… Questa è una storia di donne, per lo più».

Isabel Allende
Lori Barra

Il realismo magico nei romanzi di Isabel Allende

Qui, come in altri suoi romanzi, c’è un tocco di realismo magico.

«È Azabahar, il mondo immaginario di Anita. I bambini traumatizzati presentano alcuni sintomi comuni: bagnano il letto, smettono di mangiare o di parlare, creano amici o animali immaginari oppure un luogo dove possono rifugiarsi. Tutte cose che capitano ad Anita. Per quanto riguarda invece la nonna che “vede” i morti, sa, io vengo da una cultura dove accettiamo che a volte succedano cose che non si possono spiegare».

Quale personaggio femminile – l’assistente sociale Selena, la madre di Anita o la nonna – sente più vicino?

«Sono diverse da me. L’unica cosa che ci unisce è che anche io, per tutta la mia vita, sono stata una profuga: so cosa significa sentirsi stranieri. Un paio di volte mi sono lasciata tutto dietro e ho dovuto ricominciare daccapo, ma grazie a Dio non sono mai stata separata con la forza dai miei figli. Sono stata una immigrata privilegiata».

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La vita di Isabel Allende

Si sente ancora così?

«Certo, ho un marito americano (Roger Kukras, sposato nel 2019, ndr), parlo inglese, vivo dei miei libri. Sto bene. Ma sono cilena, parlo spagnolo, sogno in spagnolo. Eppure quando torno in Cile non ritrovo più il Paese che ho lasciato».

Non la rende triste questo?

«No, è la vita. Ho vissuto tanto e ho viaggiato molto. Ho imparato che non puoi tenerti strette le cose: le cose cambiano».

Cosa fa con la sua fondazione?

«Lavoriamo con le donne su tre fronti: educazione, per fornire loro i mezzi per potersi guadagnare da vivere ed essere economicamente indipendenti; salute, che include anche i diritti riproduttivi, dalla contraccezione all’aborto; protezione dalla violenza e dallo sfruttamento. Sono tutti problemi che riguardano le donne nei campi alla frontiera: povere, sfruttate, violentate. Noi aiutiamo finanziariamente le organizzazioni che lavorano lì. La maggior parte degli introiti dei miei libri va a loro».

Se dovesse fare un bilancio della sua vita?

«Ho 81 anni, non ho mai fatto progetti, ho avuto fortuna e successo, tragedie e perdite, amore, tante cose. Ora sono felice, sto bene fisicamente, non sono sola, ho una comunità di persone attorno che mi ama e mi sostiene, ho degli scopi che sono la scrittura e la fondazione. Ho avuto tanto e ora voglio restituire: non mi servono una casa grande, due macchine o una vita lussuosa. Quello che ho in più lo posso dare agli altri».

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