Lo sconforto. Tra le tante immagini che possono descrivere l’inizio dell’anno scolastico 2024/25, nessuna rende meglio dell’espressione sulla faccia di Anna, insegnante precaria a Milano, mentre racconta l’esito dell’ultimo concorso per le immissioni in ruolo. Ha passato entrambe le prove, il punteggio le garantirebbe un’assunzione e invece niente: nessuna cattedra, nessun merito, nessun vantaggio in graduatoria per i concorsi a venire. Tutto da rifare. «Mesi buttati». La delusione di Anna non è un caso isolato, ma il sentimento condiviso da migliaia di precari che sulla carta hanno ottenuto il posto fisso e invece, per una lunga e complessa serie di ragioni burocratiche, si ritrovano al punto di partenza come nel gioco dell’oca. Risultato: caos, cattedre vacanti, appelli, petizioni e una protesta nazionale fissata a Roma per il 12 ottobre. E il malcontento degli insegnanti aumenta.
Da dove viene il malcontento degli insegnanti?
«Le ragioni del malcontento degli insegnanti sono tante e molto tecniche» prova a fare chiarezza Alessandro Giuliani del sito specializzato La tecnica della scuola. «Sulla carta i posti erano 45.000. Una parte è stata assegnata ai vincitori dei concorsi precedenti ancora senza cattedra. E, fin qui, si può capire. Quella che invece è vissuta come un’ingiustizia è l’altissima percentuale dei posti dedicata ai riservisti, cioè persone con caratteristiche specifiche che nulla hanno a che fare con le competenze, come essere familiari di invalidi di guerra, militari o anche solo aver svolto un anno di servizio civile. I riservisti sono stati assunti anche senza aver ottenuto il punteggio necessario. Tanto più che questo concorso non prevedeva vincitori oltre i 45.000 stabiliti: o eri dentro o fuori. E chi è rimasto fuori con un punteggio più alto di chi è entrato adesso giustamente protesta».
Basta con la retorica degli insegnanti eroi
Delusione, rabbia, frustrazione, incertezza sono i sentimenti di tutti e, insieme, definiscono il perimetro di un mestiere che sembra al centro di un paradosso: resta ambìto da moltissimi a dispetto delle difficoltà di ingresso, delle paghe scarne, delle occasioni minime, delle infinite disfunzioni del sistema che puntualmente tornano al pettine come nodi impossibili da sciogliere. «Siamo come palline che sbattono una contro l’altra»: Nora De Luca, insegnante di scuola elementare, definisce così se stessa e i suoi colleghi. Alle disfunzioni del suo mestiere ha dedicato un libro bellissimo, I figli degli altri, appena uscito per Mondadori. Descrive un teatro dell’assurdo ripulito da ogni buonismo (non a caso, Nora De Luca è uno pseudonimo), che si presenta a tratti tragico e a tratti comico, con i bidelli in cima alla catena di potere e gli insegnanti sul gradino più basso.
«C’è una certa retorica difficile da superare che descrive gli insegnanti come gli eroi che tengono in piedi la scuola nonostante tutte le sue falle» dice. «Ma, appunto, è retorica: noi insegnanti siamo parte dell’eroismo e, insieme, dei disservizi del sistema, perché le due cose vanno a braccetto. Nei lavori “normali”, come quello che facevo prima di insegnare, hai a che fare con una cerchia ristretta di colleghi. Lavorare a scuola è come lavorare al pronto soccorso: arriva di tutto e tu devi essere in grado di gestirlo. Le famiglie sono sempre più sradicate e isolate e noi facciamo da argine. I bambini vengono da noi con problemi che non sappiamo come affrontare, perché non abbiamo gli strumenti. E in questo, sì, il nostro è un mestiere usurante e sottopagato».
Gli insegnanti sono malcontenti, ma per il cambiamento non c’è guida
Però, Nora aggiunge che non sempre gli insegnanti sono adeguati al ruolo. «La fama traballante un po’ ce la meritiamo. Il problema è che la selezione non è adeguata, tanti vengono buttati dentro senza che nessuno li abbia guardati in faccia. Ci attacchiamo alle prove Invalsi, con la scuola che valuta se stessa, invece servirebbe un filtro all’ingresso. Far entrare persone con le giuste competenze umane, formarle come si deve e, allora sì, pagarle il giusto». Invece questo non succede. «In Italia c’è l’idea che l’insegnante, specie quello della scuola elementare, possa farlo chiunque, che le maestre siano mamme che si occupano dei figli degli altri per 4 ore la mattina. E invece è un lavoro a tutti gli effetti in cui servono doti umane. Fortunatamente, le generazioni più giovani l’hanno capito: i nuovi docenti sono più formati di quelli vecchi. Il cambiamento è in atto, ma purtroppo non viene guidato».
Del fatto che manchi una direzione è convinto anche Marco Vacchetti, docente di lungo corso al liceo classico Massimo D’Azeglio di Torino e autore di Disegnare un elefante, appena uscito per Einaudi. L’elefante del titolo, dice, è la scuola che da un lato ha avuto più riforme della chiesa e dall’altro ogni volta che cambia si ritrova al punto di partenza. «Un elefante disorientato che sente la necessità di cambiare, ma non sa bene che cosa fare e come». In groppa al pachiderma ci sono loro, gli insegnanti: 943.681 nel momento in cui il libro è andato in stampa. Di cui 321.687 hanno più di 54 anni e solo 104.399 sono sotto i 34. Circa uno ogni 9 alunni. Molti, verrebbe da dire, eppure mai abbastanza stando alle cronache.
Perché diminuisce la voglia di insegnare?
Le ragioni e la voglia di salire sul pachiderma disorientato che è la scuola non accenna a diminuire, dice, sono tante e ognuno ha la sua. «Il mestiere dell’insegnante viene spesso idealizzato. Docenti che vivono per la scuola come il maestro Perboni del libro Cuore ce ne sono, ma di certo non sono la maggioranza. Tanti scelgono questo lavoro perché ti lascia molto tempo libero, hai pochi controlli, due o tre mesi di ferie d’estate, i pomeriggi liberi. Ma va bene: non serve la vocazione per essere un buon insegnante, serve professionalità ed etica del lavoro e curiosità».
E il malcontento degli insegnanti? Gli stipendi troppo bassi? «Sento tanti lamentarsi, però ci vuole obiettività: gli stipendi sono bassi se proporzionati ad altri Paesi, ma bisogna guardare il potere d’acquisto. E l’impegno che ci metti: ci sono insegnanti che lo stipendio se lo guadagnano tutto e altri per cui invece è pure troppo. Se continuiamo a dire che siamo dei poveracci, finisce che qualcuno poi ci crede davvero. La scuola forse non ti gratifica economicamente, ma ti gratifica in qualità di vita: fai il mestiere per cui hai studiato e hai una libertà di gestione del tempo che nessun altro impiego ti garantisce. E infatti ci lamentiamo, ma poi di persone che lasciano la scuola per mestieri più redditizi ce ne sono pochissime».
Da leggere per capire il malcontento degli insegnanti
Ecco due libri sulla scuola scritti da chi la scuola ogni giorno la vive. Disegnare un elefante (Einaudi): l’autore, Marco Vacchetti, insegnante in un liceo torinese, parla del suo lavoro in modo né mitizzato né semplicistico e ce ne ricorda il necessario talento: stimolare quello altrui.
I figli degli altri (Mondadori): a firmarlo con lo pseudonimo Nora De Luca è una maestra che ci porta a scoprire le sfide – alcune commoventi, tutte ineludibili – che deve affrontare la scuola elementare e, quindi, il nostro Paese.