Nell’ultimo femminicidio di questo 2025 in cui le donne uccise sono già 14, purtroppo tutto torna. Torna perché, nonostante la denuncia contro il marito, un’altra donna, Amina, è stata uccisa, proprio dal marito. Era mamma e lascia una bambina di 10 anni. È lei ad avere chiamato i soccorsi.
Il femminicidio di Amina Sailouhi
Amina Sailouhi, 43 anni, uccisa dal marito la notte di sabato 3 maggio a Calappio di Settala (Milano), lo aveva denunciato nel 2022, dopo essere finita in ospedale per le botte ricevute. Botte che si erano ripetute negli anni, come raccontano i vicini, che avevano anche fatto un esposto contro il marito. «Lui nel tempo se l’è presa con tutti». Una vicina, in particolare, racconta che «una volta mi ha imbrattato la porta con del sangue, in quel periodo la signora e la bambina non c’erano. Poi aspettava che io arrivassi con la macchina e mi insultava». I segnali, insomma, di un uomo e una famiglia con gravi problemi c’erano: si racconta anche che, soprattutto nel weekend, si sentiva piangere la bambina, e che lui aveva litigato con tutti in zona.
L’epilogo lo conosciamo: lui – ubriaco – sabato notte l’ha uccisa in casa con svariate coltellate, mentre lei si preparava per andare a letto. La bambina, che si è svegliata, dopo qualche ora è riuscita a chiamare i carabinieri che, quando sono arrivati, l’hanno trovata in strada con il padre. Ora lui è in carcere e la bambina affidata a un parente. La Stampa riferisce che era stato attivato il Codice Rosso ma Amina aveva rinunciato alla protezione.
Perché la denuncia non basta?
Perché, nonostante le denunce, non si riesce a proteggere le donne? Ce lo spiega Francesca Maur, consigliera nazionale della rete D.i.Re.
«La denuncia non basta. Non è una misura di protezione, anzi: può essere anche la miccia che accende ulteriore violenza. È quindi solo il primo passo, rappresenta cioè uno svelamento della violenza da cui occorre partire per accompagnare la donna nel cammino verso la fuoriuscita da questa situazione. Se la donna denuncia ma non si fa un’attenta valutazione del rischio e non vengono prese contromisure adeguate, di per sé resta un atto formale, che però è insufficiente».
Cosa significa fare una valutazione del rischio e chi dovrebbe farla?
«Quando una donna arriva al pronto soccorso, viene fatta la segnalazione alle forze dell’ordine. Spetta poi a lei decidere se denunciare o meno ma, come sappiamo, spesso per paura di ritorsioni le donne non lo fanno. In ogni caso, un conto è raccogliere la denuncia, un conto mettere la donna in grado di capire come funziona la violenza, perché è così difficile uscirne e soprattutto spiegarle come un Cav potrebbe aiutarla, in anonimato».
Quali sarebbero le contromisure da affiancare alla denuncia di violenza?
«Parliamo di allontanamento del violento, braccialetto elettronico, messa in protezione delle donne. Pare che Amina avesse rinunciato e, se fosse vero, si può spiegare con la difficoltà di uscire da una relazione violenta e con la paura di ulteriore violenza, contro di lei e la bambina».
Femminicidio di Amina: cosa non ha funzionato
Amina aveva denunciato, cosa potrebbe essere mancato?
«In casi come questo è molto importante capire in che condizioni era stata accolta la denuncia, cioè se le era stato spiegato cos’è un Centro Anti Violenza, che avrebbe potuto rivolgersi a questo nel più assoluto anonimato, che si sarebbe anche potuta accompagnare lì e iniziare insieme un percorso di consapevolezza. Percorso che non è certo obbligatorio, ma solo suggerito. Denunciare insomma, di per sé, non significa “risolvere” la questione. Occorre aiutare le donne prima di tutto a riconoscere la condizione in cui si trovano, a capire cosa accade nel ciclo della violenza dove all’esplosione segue la luna di miele, in cui lui chiede perdono e promette che non lo rifarà più. Solo iniziando a capire in quale meccanismo si è dentro, è possibile immaginare di venirne fuori. Sempre ricordando, però, che nessun percorso è obbligatorio, solo suggerito».
Perché con tanti segnali evidenti di rischio, Amina non è stata aiutata?
«Pare proprio che in casi come questo manchi l’aspetto più importante, e cioè la valutazione del rischio, che è il primo compito di un Cav. I segnali spaziano dalle minacce di morte a quelle di portare via i bambini o suicidarsi, dal possesso di armi alle dipendenza varie (alcol o droghe), fino ai precedenti penali. Questi sono tutti indicatori di una situazione di violenza e maltrattamenti che può degenerare e qualsiasi centro antiviolenza ne tiene conto. Ma c’è di più: il monitoraggio dura nel tempo perché il rischio può alzarsi o abbassarsi. Nel caso di Amina, lui era molto aggressivo, a parole e non solo. Per di più, quando la violenza avviene in famiglia, il rischio si estende anche ai figli, che sono vittime di violenza quanto meno assistita, se non proprio diretta».
Il fatto che la famiglia di Amina e del marito sia marocchina, fa in qualche modo la differenza?
«Assolutamente no. La violenza riguarda in modo trasversale qualsiasi appartenenza. Nell’ultimo report Istat del 2024, su 117 donne uccise, 96 sono vittime di femminicidio e, di queste, il 93,4 per cento sono state vittime di uomini italiani. Purtroppo però in casi come questo si muove molto l’emotività».
La figlia di Amina è diventata una dei tanti orfani di femminicidio, di cui in Italia non si sa neppure il numero esatto (pare circa duemila). Che ne sarà di lei?
«Avrà un affiancamento psicologico e legale e tutto il sostegno che la legge riconosce a questi bambini, tra cui il fondo speciale, che ha molti limiti ma è pur sempre una misura di cui tener conto. Purtroppo spesso è proprio la presenza dei figli a impedire a molte donne di abbandonare il partner violento: la paura di ritorsioni, o di “negare” un padre ai bambini, esercita una pressione enorme su di loro. Di fronte a tante semplificazioni e colpevolizzazioni, ricordiamoci che i meccanismi in una famiglia dove si agisce violenza sono molto complessi, perché entrano in gioco valori (individuali e culturali) ed emozioni profonde. Proprio per questo, è importante che la rete intorno alle donne funzioni. Quella rete prevista già dalla Convenzione di Istanbul e che prevede la presa in carico delle donne vittime di violenza».