Dice Roberta Recchia che una tragedia può avere molte facce, ma in genere ne guardiamo soltanto una, quella che abbiamo sotto gli occhi. Vedere le altre è difficile: occorre cambiare prospettiva e raramente lo si fa, ignorando la complessità delle cose e le infinite sfumature tra il bene e il male. E invece anche dentro una storia nera ce ne sono tante: quella di chi uccide, quella di chi muore e quella di chi rimane a fare i conti con l’abisso. Succede nella realtà e succede nei libri.

Il nuovo romanzo di Roberta Recchia dà voce al fratello minore del femminicida

Roberta Recchia, autrice di un romanzo sui familiari dei femminicidi
La scrittrice Roberta Recchia

Per questo, un anno dopo il suo luminoso esordio letterario con Tutta la vita che resta, la storia di una ragazzina uccisa da due coetanei e delle conseguenze di quella morte, Roberta Recchia torna con un nuovo romanzo, Io che ti ho voluto così bene (Rizzoli come il precedente), che riparte dal punto in cui il racconto si era fermato: la stanza di un adolescente, Luca, che è il fratello minore del femminicida. Un’altra voce, un altro punto di vista, quello di chi paga per responsabilità non sue, cioè i familiari dell’assassino.

Il dolore nascosto dei familiari dei femminicidi: tra stigma e giudizio pubblico

Fratelli, sorelle, genitori, nonni, dei quali la cronaca restituisce un ritratto appiattito su due sole dimensioni: la colpa di non aver visto il “mostro” e la vergogna di condividerne sangue e cognome. Quasi mai si concede il diritto alla sofferenza e alla comprensione, tutto finisce sotto giudizio: le lacrime della madre di Alessio Tucci che ha ucciso Martina, la fidanzata 14enne, le dichiarazioni di sostegno dei Turetta al figlio Filippo in carcere per timore che si tolga la vita, lo spaesamento di Sabrina Paulis, madre di Impagnatiello, quando dice «Alessandro deve avere per forza una doppia personalità», il bravo ragazzo che conoscevano loro e il mostro che ha ucciso Giulia Tramontano.

Vittime collaterali ignorate dalla società

Il beneficio della buona fede ai parenti del mostro è precluso a priori. A chi si ritrova dalla parte sbagliata del dolore, dice Roberta Recchia, raramente si dà voce e quando lo si fa è per esprimere giudizi sommari e feroci. «Si cercano le colpe di quello che è successo, forse perché trovare un colpevole è rassicurante. Si fa l’errore di pensare che un ragazzo che commette un crimine atroce debba essere cresciuto necessariamente da genitori sbagliati in una famiglia disfunzionale. A volte è così, ma non sempre, come ci insegna il massacro del Circeo. Il male può essere molto più vicino di quello che pensiamo e nessuno è al riparo. E quei genitori o quei fratelli sono vittime collaterali verso cui bisognerebbe provare compassione».

Mio fratello è un assassino: il peso insostenibile della colpa riflessa

Il romanzo di Roberta Recchia Io che ti ho voluto così bene (Rizzoli)

Fratelli come Luca, protagonista del suo romanzo, che i genitori mandano via dal paese per proteggerlo dalla cattiveria delle persone, o come quelli che riempiono le cronache nella vita reale. Salvo Argentino di Noto, per esempio, cresciuto in una famiglia descritta da tutti come perbene, padre muratore e madre casalinga, che da un giorno all’altro si trova a spiegare ai giornalisti sotto casa che suo fratello Stefano non aveva mai fatto preoccupare nessuno e che sgozzasse la sua compagna di università Sara Campanella era davvero inimmaginabile. Aggiungendo che un fratello che commette una cosa del genere è difficile da metabolizzare e non lo si augura a nessuno. E che, ovviamente, erano tutti sconvolti.

Anche i familiari dei femminicidi devono elaborare un lutto

O Andrea Turetta, appena 18enne, anche lui costretto a render conto ai media del suo rapporto con Filippo dicendo che, nonostante tutto, restava suo fratello, stesso sangue e stessi genitori, con gli haters pronti ad accusarlo: «Se gli vuole ancora bene, allora anche lui è guasto». E invece no, ribatte Roberta Recchia, perché in entrambe le famiglie, quella della vittima e quella del carnefice, c’è una perdita terribile e il dolore è ugualmente inconsolabile. «Anche i familiari del carnefice devono elaborare un lutto, perché il figlio o il fratello che resta dopo un delitto non è quello a cui loro erano abituati a voler bene. L’amore, però, non è un interruttore che si accende e si spegne quando le persone disattendono le nostre aspettative. Ecco perché dovremmo tutti sospendere il giudizio e provare empatia».

La società non ha alcuna empatia per i parenti del femminicida

Empatia è la stessa parola che usa Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva, autore di numerosi libri sul disagio giovanile (l’ultimo, Allenare alla vita, Mondadori, è dedicato al rapporto tra genitori e figli). «Questi genitori e questi fratelli sono doppiamente vittime» spiega. «Anche loro, in realtà, perdono una persona cara, assorbita dalla rete della giustizia, e sono costretti a riscrivere i copioni familiari. E per questo meriterebbero comprensione. Invece, entrano dentro a una sorta di macchina del fango che li connota con lo stigma della vergogna e li include in un processo di corresponsabilità tipico della narrazione pubblica».

I familiari dei femminicidi restano chiusi nella loro vergogna

E non ci sono protocolli, associazioni, gruppi di aiuto a sostenerli. Ognuno resta chiuso nella sua vergogna. «Nella narrazione pubblica queste famiglie stanno dalla parte sbagliata. È come se non permettessimo al nucleo che ha causato un dolore così grande di avere la dignità del dolore». E allora nessuno si salva, neanche due genitori che parlano con il figlio in carcere e che a quel figlio cercano di dare un conforto, come i Turetta. «Dentro alla fragilità di un figlio travolto da quello che ha fatto, c’è la paura che quella fragilità diventi autolesiva e l’istinto di un genitore è proteggere» spiega ancora Alberto Pellai. «È comprensibile e corretto voler vedere quel ragazzo condannato all’ergastolo come un figlio che ha fatto un enorme sbaglio e però, come persona, nel tempo si può riaggiustare. È il senso della giustizia riparativa».

Molti cambiano città e cercano di ricostruirsi una vita altrove

Se il diritto a pensare che esista un domani, qualsiasi cosa significhi, vale per chi deve pagare per le sue colpe, vale tanto più per chi colpe non ne ha e però si ritrova con la vita stravolta e il futuro compromesso. «Per un fratello il trauma è enorme» continua Pellai. «Il tuo cognome e il tuo sangue sono gli stessi di una persona che è entrata nella narrazione collettiva come il mostro all’interno di una comunità. Se manca l’empatia e non si capisce che il fratello è vittima egli stesso della storia a cui appartiene, lo stigma e la vergogna finiscono per prendere il sopravvento. Non è un caso che molti cambino città e cerchino di ricostruirsi la vita altrove».

È enorme il peso dello sguardo degli altri sui familiari

Se resti, sarai sempre “il genitore di”, “il fratello di”, “il figlio di”. Come nell’ultimo episodio della serie Netflix Adolescence, quando la famiglia di Jamie, condannato per aver ucciso la compagna di scuola, viene presa di mira mentre fa la spesa al supermercato: lo sguardo degli altri ha un peso impossibile da sopportare. Nessuna voglia di normalità regge, la gogna prevale. Non a caso anche Luca, il protagonista del romanzo Io che ti ho voluto così bene, ricompone i pezzi della sua storia lontano dal paese e da un futuro irrimediabilmente segnato. Un epilogo che, sostiene l’autrice, vale per lui e non necessariamente per altri.

Non c’è lieto fine, ma può esistere una forma di felicità

«Ogni vita è un mondo a sé, sarebbe utopistico pensare che tutte portino a un lieto fine. Io, volevo dare uno spiraglio di speranza. Non esiste lieto fine perché niente può cambiare quello che è stato. Ma esiste una forma di felicità anche per chi ha dovuto affrontare da innocente un male così profondo. Come non è giusto che le colpe dei padri ricadano sui figli, dovrebbe valere anche l’opposto. E l’unico modo di riuscirci è mettersi nei panni degli altri».